Redazione | Arturo Diaconale - Part 2


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Redazione26 Febbraio 2020

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte approfitta dell’emergenza imposta dal coronavirus per lanciare un appello all’unità nazionale che di fatto dovrebbe costituire un atto di fiducia piena e senza distinguo di sorta alle decisioni ed alle scelte del proprio governo.

L’appello raccoglie l’immediata adesione delle forze della coalizione governativa. I partiti che fino all’altro ieri sembravano ad un passo dalla rottura si affrettano a rinviare il cosiddetto chiarimento a data da destinarsi per non assumersi la responsabilità di provocare una crisi in un momento di così grande difficoltà. E le stesse forze dell’opposizione riducono le proprie polemiche nei confronti dell’esecutivo ammettendo implicitamente che in nome dell’unità nazionale non si debbono creare problemi al governo.

Il paese formale, dunque, aderisce rapidamente e facilmente all’appello di Conte mettendo da parte, almeno per il momento, i dissidi, i contrasti, le accuse e le ripicche che avevano alimentato nelle settimane scorse i pericoli di una crisi dagli sbocchi non prevedibili.

Ma il paese reale è disponibile ad adeguarsi all’indicazione proveniente da quello formale? Tra i suoi tanti effetti il coronavirus ha riprodotto in maniera netta ed inequivocabile la distinzione tra i due paesi, quello delle istituzioni che opera nel Palazzo e quello della società civile che vive nella penisola. Il Palazzo si stringe attorno a Conte firmando una sorta di cambiale in bianco al governo. La società civile continua a non fidarsi affatto di un governo e di un Parlamento che non più tardi di una settimana fa sembravano spinti verso l’abisso dal peso del discredito di cui erano caricati.

Conte, in sostanza, può convincere i partiti a concedergli una tregua in nome dell’emergenza nazionale. Ma non è in grado di raccogliere la fiducia della maggioranza degli italiani a cui non viene affatto spiegato perché mai il nostro paese sia passato da quello più affetto d’Europa da pregiudizio razzista a quello più affetto di coronavirus del Vecchio Continente.

Conte, naturalmente, se ne può tranquillamente infischiare del paese reale. Finché quello formale lo sostiene rimane senza scosse a Palazzo Chigi. Ma l’emergenza è come l’epidemia. Presto o tardi finisce. Ed allora i conti si pagheranno con il sovrapprezzo della rabbia popolare repressa!

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Redazione25 Febbraio 2020

Il colera a Napoli dei decenni passati era causato dal sottosviluppo. Il coronavirus in Lombardia, in Veneto ed in altre regioni settentrionali è il frutto dello sviluppo. A provocare il colera erano le pessime condizioni igieniche e sanitarie. A suscitare il coronavirus sono i flussi intensi di traffici e commerci tra le regioni più sviluppate d’Italia e le aree del pianeta, Cina in primo luogo, dove l’epidemia è scoppiata.

La riflessione è sicuramente molto schematica ma pone in maniera totalmente diversa dal solito il problema della separazione delle due Italie, quella del Nord votata alla produzione e quella del Sud che in gran parte vive di assistenza ed in cui gli slanci produttivi vengono frenati dalle difficili condizioni presenti sul territorio.

Questo schematismo può provocare un grave pericolo. Che per fronteggiare le gravi condizioni economiche delle zone produttive a causa del coronavirus, il governo giallorosso di Giuseppe Conte sappia solo operare in chiave assistenziale nei confronti del Nord ed in questo modo finisca solo con il provocare la separazione tra un Settentrione aiutato ed un Meridione praticamente abbandonato.

Questo pericolo nasce dalla considerazione che l’attuale governo non sappia far altro che usare l’assistenza come unico strumento di intervento dello stato. La cultura dell’assistenzialismo è l’unica manifestazione di pensiero del Movimento Cinque Stelle. Ma, soprattutto, è ormai da tempo il solo mezzo che secondo il Partito Democratico e l’intera sinistra risulta essere indispensabile per tenere in piedi lo stato sociale.

Il fallimento del meccanismo assistenziale, che è sempre accompagnato da fenomeni di elefantiasi della burocrazia costosa ed improduttiva, è assodato da tempo. Ma i maggiori partiti della coalizione non hanno alcuna intenzione di riconoscere questo fallimento.

Di qui la preoccupazione che per aiutare le zone produttive il governo non esiti ad allargare in maniera crescente la forbice esistente tra Nord e Sud.

Mai come in questa fase emergenziale servirebbe passare dall’assistenza alla creazione delle condizioni indispensabili per rilanciare l’economia nel Settentrione e liberare le spinte produttive in Meridione.

Purtroppo, però, M5S e Pd sono convinti che l’assistenza produca consensi elettorali. Ed a giugno si vota in molte regioni, in particolare del Nord!

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Redazione24 Febbraio 2020

Grazie alla diffusione del coronavirus nel nostro paese il governo evita la crisi e rinvia a data da destinarsi quella verifica che avrebbe probabilmente certificato la sua incapacità di andare avanti.

La circostanza viene accolta dai dirigenti dei partiti della maggioranza con un grande sospiro di sollievo. In nome di una emergenza superiore si accantona il problema di un esecutivo indebolito dai contrasti interni e la prospettiva di una consultazione politica anticipata destinata fatalmente a provocare il ritorno della sinistra all’opposizione e l’avvento del centro destra alla guida del paese.

Ma il salvataggio del governo giallorosso operato dal coronavirus non modifica di una virgola la questione della affidabilità o meno della coalizione governativa. Al contrario, anche se formalmente rinvia la sua verifica ad un momento successivo, la rende ancora più urgente e drammatica. Perché il quesito ora non è più se il governo sia in grado di sopravvivere alle proprie contraddizioni ma se sia capace o meno di fronteggiare l’emergenza superiore del diffondersi dell’epidemia nel paese.

L’interrogativo che va posto è dunque se il governo salvato dal coronavirus sia in grado di combattere ed eliminare lo stesso coronavirus.

Chi ringrazia l’epidemia per aver messo la sordina alla debolezza dell’esecutivo sostiene che non è questo il tempo per sollevare interrogativi del genere e suscitare polemiche che possono intaccare l’unità di intenti e di responsabilità indispensabili per essere all’altezza della situazione.

Ma gli appelli all’unità, anche quello lanciato dal Presidente della Repubblica, non riescono ad espellere da una opinione pubblica fino a ieri colpita dalla debolezza del governo la preoccupazione che una coalizione così lacerata e divisa non sia in grado di bloccare il coronavirus. Ci si può fidare di chi prima ha volutamente sottovalutato il pericolo dell’epidemia considerandolo una esasperazione ingiustificata dei neo-razzisti del centro destra e nel momento in cui si accorge che il rischio è reale mette in stato d’assedio le regioni settentrionali del paese?

Chi pensa che l’emergenza del coronavirus sia la salvezza del governo compie un errore clamoroso. Non calcola che finita l’emergenza anche gli errori nel fronteggiare l’insorgere dell’epidemia verranno messi ingigantiti nel conto da far pagare a Giuseppe Conte. A quel punto non ci potranno più essere responsabili di sorta a cui aggrapparsi per non scomparire!

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Redazione24 Febbraio 2020

La speranza è il calcolo della probabilità. Ad esso si sono aggrappati e si aggrappano quanti sperano che la Lazio non riesca ad arrivare nella ultimissima fase finale del Campionato ed essere in grado di giocare le proprie carte per tagliare per prima il traguardo dello scudetto.

Presto o tardi, hanno detto e ripetono i gufetti stupiti e preoccupati per il percorso di crescita della squadra biancoceleste, si deve fermare. Non perché abbia carenze, stia perdendo freschezza, vivacità ed efficacia di gioco, capacità di conseguire risultati. Ma perché il calcolo delle probabilità stabilisce che arriverà comunque il momento in cui la parabola, dopo aver raggiunto l’apice, incomincerà la fasce discendente.

Un ex dirigente e manager uscito da giro calcistico per questioni giudiziarie ha addirittura stabilito che la legge delle probabilità sarà rapida visto che il problema della Lazio è la continuità. Come se il numero delle partite utili conseguito fino ad ora da Simone Inzaghi e dai suoi ragazzi non fosse sufficiente a fissare una linea di continuità destinata a continuare ad andare avanti. Naturalmente vanno fatti tutti i debiti scongiuri nei confronti di questi “calcolatori” del malaugurio. Ma, per quanto mi riguarda, oltre a non credere troppo a queste convinzioni balzane, ho una esperienza personale che mi fa dubitare dell’efficacia del calcolo delle probabilità. Avevo uno zio che per anni ed anni ha giocato la stessa schedina al Totocalcio nella certezza assoluta che presto o tardi sarebbe risultata vincente. Ma in vent’anni non è mai successo.

Perché mai alla Lazio potrebbe o dovrebbe succedere in quattro mesi?

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Redazione21 Febbraio 2020

Non c’è stata alcuna risposta alla domanda su quale tipo di prevenzione sarebbe stata prevista dalle nostre autorità nei confronti dei duemilacinquecento cinesi della Toscana recatisi in Cina per il capodanno del loro paese e rientrati in Italia al termine delle feste. Tanto silenzio non stupisce. La preoccupazione prioritaria del nostro governo è di non creare problemi con quello cinese e di evitare comportamenti che potrebbero essere considerati discriminatori per motivi razziali nei confronti della comunità immigrata in Italia.

Ma si può, per il timore di suscitare l’irritazione di Pechino o di subire dalla cultura politicamente corretta della sinistra l’accusa di neo-razzismo, evitare di affrontare apertamente un problema che non solo è particolarmente grande ma suscita la legittima preoccupazione della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica nazionale?

La dimensione della questione è data dall’ampiezza della comunità cinese in Italia. Che è formata da più di trecentomila persone, residenti in gran parte a Prato e nelle grandi città, Roma e Milano in primo luogo. Si tratta di una comunità ben integrata, particolarmente attiva e molto apprezzata dagli italiani per la sua capacità di adattamento e per la totale assenza di motivi di scontro o di contrasto con il resto della popolazione.

Quanti di questi oltre trecentomila si sono recati in Cina per il Capodanno? Quanti di loro sono tornati e dove? E perché mai se un italiano che torna dalla Cina deve passare un periodo di quarantena in un ospedale specializzato, un cinese che torna sempre dalla Cina deve adattarsi ad una prevenzione “fai da te” ponendosi autonomamente in auto-quarantena all’interno della propria casa ed a stretto contatto con la propria famiglia e con la propria comunità?

Si comprende facilmente come un problema così grande sia di difficile soluzione. Non esistono ospedali specializzati così capienti da poter ospitare migliaia e migliaia di cinesi italiani per la quarantena a cui sono sottoposti gli italiani non cinesi. Ma ignorare ostentatamente il problema non significa risolverlo. Significa aggravarlo per paura di una accusa di discriminazione razzista che, però, produce una discriminazione sanitaria.

Perché censire e monitorare i cinesi di ritorno in Italia dalle feste non li discriminerebbe ma consentirebbe di tutelare la loro salute. Una salute indispensabile per l’intera comunità italiana. A quando qualche segnale in proposito?

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Redazione20 Febbraio 2020

La proposta dell’elezione diretta del Premier può essere interpretata come la proposta al centro destra di sostituire il governo Conte-bis con un esecutivo d’emergenza destinato a realizzare la grande riforma istituzionale e portare il paese alle urne. Ma può essere anche considerata un modo per preannunciare che Italia Viva si batterà contro la modifica in senso proporzionale della legge elettorale e che la rottura su questo terreno con il Pd ed il resto della maggioranza si aggiungerà a quelle già esistenti sulla giustizia, sulle autostrade, sullo sblocco delle opere pubbliche e via di seguito.

Si può discutere su quale sia il significato più profondo e vero dell’iniziativa di Matteo Renzi. Ma non può esistere alcun dubbio sul fatto che essa rappresenti una uscita definitiva di Italia Viva dalla coalizione governativa.

Il Presidente del Consiglio può anche reagire facendo finta di niente ed il Pd lanciando una campagna di demonizzazione del secondo Matteo destinata ad affiancarsi a quella contro il primo. Ma indifferenza forzata e parificazione di Renzi a Salvini sul terreno del linciaggio politico non cambia la realtà costituita dalla rottura del patto di maggioranza.

Al governo nato quadripartito manca ora una gamba. Logica vorrebbe che il Presidente del Consiglio, che ostenta sicurezza di avere in Parlamento i voti necessari per continuare a governare, si presentasse prima al Quirinale comunicando la lacerazione subita dalla coalizione governativa e poi alle Camere per sollecitare una nuova fiducia da parte della restante maggioranza e per scoprire se esista o meno una stampella parlamentare per puntellare il proprio esecutivo ora tripartito.

Contro questa logica si schierano quanti rilevano che se la verifica di Conte finisse in un fallimento non ci sarebbe alcuna possibilità di andare ad elezioni anticipate. Perché si dovrebbe attendere l’esito del referendum sulla riduzione dei parlamentari e la successiva ridefinizione dei collegi. E perché se la riforma elettorale in senso proporzionale non dovesse andare in porto si dovrebbe votare con l’attuale sistema proporzional-maggioritario considerato il più funzionale ad una vittoria del centro destra.

Ma bastano queste argomentazioni ad impedire al Parlamento di prendere atto che il governo quadripartito è diventato tripartito e non ha più una maggioranza definita?

L’interrogativo investe Conte e, se il Presidente del Consiglio da questo orecchio non ci sente, ricade automaticamente sulle spalle del Presidente della Repubblica che non può fare a meno di affrontarlo e risolverlo. Quanto meno con una formale chiamata al Quirinale del Premier!

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Redazione19 Febbraio 2020

La comunità cinese della Toscana è composta da più di ventimila persone concentrate soprattutto a Prato. Di questa comunità duemilacinquecento tra donne ed uomini si è recata nel paese d’origine in occasione del capodanno cinese ed ora si accinge a rientrare in Italia e riprendere le proprie normali attività lavorative.

Tutti gli italiani che tornano dalla Cina vengono sottoposti alla quarantena per evitare il diffondersi dell’epidemia del coronavirus. Le autorità di governo hanno trasformato i rientri, da quello del ragazzo a quelli dei passeggeri delle navi crociera, nell’occasione per mettere in mostra la propria capacità di saper salvaguardare la salute degli italiani.

Ma questa operazione d’immagine non sembra riguardare i cinesi della Toscana e di Prato. Questa comunità ha deciso autonomamente di puntare sull’autoquarantena per evitare il rischio di contagio. Ogni cinese di ritorno dalla Cina si chiuderà in casa per almeno due settimane e se per caso avvertirà dei sintomi rientranti in quelli del coronavirus dovrà avvisare o recarsi ad un apposito centro medico predisposto dalla locale Asl.

L’autoquarantena della comunità cinese costituisce un atto di responsabilità meritorio ed apprezzabile. Ma non sembra in grado di costituire una prevenzione accettabile ed efficace dell’epidemia. Per la semplice ragione che i cinesi rientrano nelle loro abitazioni e nelle loro aziende e non possono fare a meno di stare in contatto con i propri familiari e con gli addetti alle proprie attività. Esiste il concreto e drammatico pericolo, in altri termini, che il rientro in Italia dei cinesi toscani senza alcun controllo e misura preventiva delle autorità sanitarie nazionali possa far scattare una esplosione dalle dimensioni gigantesche ed incontrollabili dell’epidemia all’interno del nostro paese.

Ma è possibile che un governo così attento a mandare allo Spallanzani ogni italiano di rientro dalle zone a rischio con il concorso della massima enfasi mediatica, ignori totalmente il pericolo rappresentato dal rientro in Italia dei duemilacinquecento cinesi toscani?

Qualcuno avvisi Conte ed i suoi collaboratori che la diffusione del coronavirus è un rischio maggiore degli strappi di Matteo Renzi. E che preoccuparsi della salute dei cinesi italianizzati non è razzismo ma solo buon senso!

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Redazione18 Febbraio 2020

Chi punta a realizzare un sistema proporzionale pare convinto che cancellando il maggioritario, da cui uscirebbe sicuramente vincitore il centro destra, si realizzerebbe un sistema in cui, come è avvenuto per la formazione del governo giallorosso di Giuseppe Conte, il Pd diventerebbe l’asse portante e potrebbe realizzare facili alleanze con i diversi pezzi della sinistra in nome della comune opposizione alla destra.

L’aspetto singolare di questa convinzione è l’uso della logica maggioritaria nel portare avanti la proposta del ritorno al proporzionale. Perché mai si dovrebbe riprendere il meccanismo della rappresentanza divisa tra i singoli partiti se poi il risultato di questa divisione dovrebbe essere l’unione di tutte le forze di sinistra per contrastare le destre richiuse nel ghetto delle forze estranee al patto costituzionale? Ma accanto a questa bizzarria logica ce n’è una seconda ancora più evidente. Consiste nella applicazione al futuro sistema proporzionale dello stesso schema di riflessione del vecchio sistema proporzionale della Prima Repubblica. Quello secondo cui la Dc collocata al centro dello schieramento dava stabilità al sistema alleandosi alle forze riformiste della sinistra o applicando la politica dei due forni. Uno schema che adottato nel futuro darebbe al Pd la stessa funzione della Dc e lo trasformerebbe nell’asse del sistema consentendogli di giocare come avviene adesso con il forno del M5S e quello dei Italia Viva o realizzando un fronte progressista con l’ala di sinistra del movimento grillino.

La bizzarria dello schema è nel non prendere neppure in considerazione che in un sistema proporzionale non è la collocazione politica ad assegnare i ruoli ma è la dimensione numerica dei partiti. La Dc della Prima Repubblica svolgeva il compito di asse portante del sistema non solo perché godeva della conventio ad excludendum imposta dalla guerra fredda ma anche perché superava il 30 per cento dei consensi e risultava determinante per qualsiasi maggioranza di governo.

In un sistema proporzionale, in altri termini, il centro è rappresentato da chi può contare su un consenso superiore al 30 per cento. In questa legislatura la forza di centro è stata il Movimento Cinque Stelle, che non a caso ha formato i governi prima con la Lega e poi con il Pd. Nella prossima sarà il partito che avrà superato l’asticella del 30 per cento. Con ogni probabilità la Lega. Che incomincia a muoversi in questa prospettiva!

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Redazione17 Febbraio 2020

Con la decisione di salire al Colle per informare il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella della situazione esistente all’interno della maggioranza a causa dello scontro sulla prescrizione con Italia Viva, Giuseppe Conte ha formalmente presentato la propria dichiarazione di guerra a Matteo Renzi. Una guerra che prima ancora che politica è personale visto che il Presidente del Consiglio teme di fare la fine di Enrico Letta e Paolo Gentiloni e nutre nei confronti dell’ex Premier una diffidenza ed una ostilità assolutamente identiche a quelle nutrite nei confronti del nemico giurato Matteo Salvini.

Questa ostilità personale si carica, ovviamente, di precise motivazioni politiche. Proprio perché non vuole fare la fine di Letta e Gentiloni e non si vuole ritrovare per la seconda volta sgambettato da un Matteo, Conte aggiunge alla inimicizia personale il progetto politico di porsi in prospettiva come il leader di quel fronte progressista che al termine della legislatura dovrebbe essere formato dal Pd, da un pezzo del M5S e da quella parte dell’establishment che potrebbe aggregarsi attorno alle proprie insegne personali. Con la dichiarazione di guerra a Renzi, in sostanza, Conte apre la corsa alla futura leadership della sinistra nella convinzione che solo battendo ed umiliando il capo di Italia Viva potrà conquistare il ruolo di leader incontrastato del futuro fronte progressista.

Il disegno dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi è comprensibile. Ma per essere realizzabile ha bisogno di due condizioni essenziali. La prima è l’esistenza di defezioni tra i senatori di Italia Viva e di apporti di responsabili proveniente dal gruppo misto o da Forza Italia in grado di azzerare il potere di condizionamento che i voti dei renziani hanno nei confronti della maggioranza. La seconda è l’avallo ed il sostegno del Capo dello Stato che deve accettare senza creare ostacoli di sorta una operazione così trasformista e rischiosa come quella prospettata da Conte.

Il rischio, infatti, è che il progetto che prevede l’azzeramento personale e politico di Renzi non vada in porto e che la guerra porti a quella fine anticipata della legislatura che Matterella vorrebbe scongiurare.

La possibile sconfitta di Conte, però, segnerebbe anche la sconfitta di Mattarella. Al Quirinale hanno calcolato questa eventualità?

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Redazione17 Febbraio 2020

Se me lo avessero detto non ci avrei mai creduto. Che dopo quasi quattro anni di esperienza come direttore della Comunicazione della S.S. Lazio e portavoce del Presidente Claudio Lotito, mi sarei ritrovato a rivivere le stesse emozioni che da tifoso biancoceleste mi avevano felicemente agitato e riempito nelle fasi finali degli scudetti del ’74 e del 2000.

La mia passione laziale è antica. Risale alla metà degli anni ’50, quando ero bambino ed i miei primissimi miti erano Lovati, Fuin, Pinardi, Muccinelli, Vivolo, Selmosson “Raggio di Luna”. Ma quella di componente della società è più recente. Alla fine di luglio del 2015 entro in una riunione del Consiglio di Amministrazione della Rai senza spegnere il cellulare e ricevo una telefonata da un numero sconosciuto. “Ciao, sono Claudio, lo faresti il direttore della Comunicazione della Lazio?”. Non c’è bisogno di riportare la mia risposta segnata da un intreccio perfetto tra soddisfazione professionale e felicità di tifoso. Ma se approfitto del “Taccuino biancoceleste” per raccontare questo episodio personale è solo per fornire una testimonianza diretta del percorso seguito dalla società e dalla squadra da quella data ad oggi. Allora sarebbe stato preso per matto chi avrebbe pronosticato che dopo quattro anni la Lazio avrebbe partecipato alla corsa per lo scudetto. La pesante contestazione degli anni precedenti aveva lasciato segni dolorosi. Claudio Lotito viveva (e continua a vivere) sotto scorta da anni per non essersi arreso alle violenze verbali ed alle minacce dei contestatori. Con lui si trovavano in una condizione di stato d’assedio ad opera di parte della tifoseria e dei media i suoi più stretti collaboratori, a partire da Igli Tare, professionista esemplare e uomo tutto d’un pezzo. E dall’esterno nessuno avrebbe scommesso, dopo la vicenda Bielsa e la scommessa su Simone Inzaghi, che dopo il Piave ed il Monte Grappa ci sarebbe stato Vittorio Veneto.

Ricordare quel punto di partenza, che già era un grande risultato visti i dieci anni precedenti di resistenza faticosa e dolorosa, serve a valutare correttamente il percorso di crescita da allora ad oggi. Un percorso segnato dalla guida illuminata ed innovativa del Presidente, dalle intuizioni geniali del direttore sportivo e dal lavoro costante, minuzioso e prezioso di un allenatore come Simone Inzaghi che con il suo staff ha plasmato un gruppo di ragazzi eccezionali non solo sul piano tecnico ma anche umano e morale. Un percorso, poi, favorito dal prestigio e dall’esperienza di Angelo Peruzzi, dalla professionalità di Armando Calveri, dall’impegno di Stefano De Martino, dalle presenze innovative di Anna Nastri e Sara Zanotelli e da uno staff medico di altissimo livello guidato dal professor Fabio Rodia.

Grazie a questo percorso, di cui sono testimone privilegiato, oggi si sogna. Concretamente. Come nel ’74, come nel 2000. E, quel che è più importante, si sogna tutti insieme, società, squadra e tifoseria finalmente unita!