L'Opinione delle Libertà | Arturo Diaconale - Part 5


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Redazione10 Gennaio 2020

Non sembra essere una grande operazione politica quella compiuta dai quattro senatori di Forza Italia di osservanza carfagnana di ritirare le firme dalla richiesta di referendum sulla legge per il taglio dei parlamentari. Ufficialmente la spiegazione che i quattro hanno dato al loro ripensamento è che non si sono voluti prestare alle strumentalizzazioni di chi voleva usare la minaccia del referendum per aprire il più presto possibile la crisi ed andare ad elezioni anticipate sfruttando la vigenza della vecchia legge per avere più possibilità di rientrare in Parlamento.

Nella realtà la motivazione nobile, che poi sarebbe quella di non tradire il taglio dei parlamentari, nasconde l’interesse concreto di consolidare governo e legislatura per continuare ad usufruire per i prossimi tre anni dei benefici dello scranno parlamentare.

Questo interesse può essere considerato anche legittimo ma non ha nulla di nobile. E, soprattutto, costituisce un pessimo avvio per chi , come la componente di Forza Italia seguace di Mara Carfagna, avrebbe , almeno a parole, l’ambizione di reagire alla crisi del partito di Silvio Berlusconi ritagliandosi un ruolo politico autorevole e significativo. Quello di ponte tra l’area liberale del centro destra  e quella del centro sinistra che al momento è rappresentata da Italia Viva di Matteo Renzi.

Con la loro scelta, infatti, i carfagnani si sono rivelati dei semplici “responsabili” alla Scilipoti dell’attuale legislatura.  O, se vogliamo, i nuovi Alfano e Verdini, disposti a compiere ogni possibile capriola pur di puntellare un governo che fa acqua da tutte le parti ed evitare una crisi da cui potrebbero venire fuori solo uscendo dalla scena politica e tornare alla vita privata di un tempo.

Nessuno contesta il diritto di questi parlamentari forzisti di perseguire con ogni mezzo l’obbiettivo della propria sopravvivenza politica. Ma è proprio l’esperienza passata degli Scilipoti, degli Alfano e dei Verdini ad indicare che la strada dei “responsabili” non apre scenari futuri ma serve esclusivamente a prolungare la propria permanenza del Palazzo al prezzo pesante dell’accusa di essere dei voltagabbana per bieco interesse personale.

I valori liberali, sia ben chiaro, con “responsabili” di tale conio non c’entrano un bel nulla!

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Redazione9 Gennaio 2020

Singolare pretesa quella del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte di convocare a Palazzo Chigi nello stesso giorno i due esponenti che si contendono armi alla mano il controllo della Libia. Conte ha ricevuto in mattinata il generale Haftar ed avrebbe voluto incontrare nel pomeriggio il premier del governo di Tripoli Al Serraj. Ma quest’ultimo, dopo aver saputo che il suo rivale aveva avuto un colloquio di tre ore con il capo del governo italiano, ha fatto marcia indietro ed ha lasciato Conte ad aspettarlo invano per tutto il resto della giornata.

Si è trattato di un incidente diplomatico dovuto ad un eccesso di suscettibilità di Al Serraj? Per carità di patria si può anche adottare questa tesi. Ma se non si ha il timore di prendere atto della realtà, non si può fare a meno di rilevare che quanto è avvenuto è il frutto di un eccesso di presunzione del nostro Presidente del Consiglio.

Se al posto di Conte ci fosse stato Trump è probabile che Al Serraj avrebbe risposto la propria suscettibilità ed avrebbe accettato di buon grado di incontrare il Presidente Usa anche se era stato preceduto dal nemico generale Haftar. Lo stesso sarebbe accaduto se invece di Trump il posto di Conte fosse stato ricoperto dalla  Merkel, da Macron per non parlare di Putin o di Erdogan.

“Giuseppi”, invece, non era altro che “Giuseppi”. Ed il premier tripolino non ha avuto alcuna esitazione a compiere nei suoi confronti uno sgarbo che non si sarebbe mai permesso di compiere nei confronti di un altro Premier di un altro paese.

Questo significa non solo che l’Italia del governo giallorosso non conta nulla nel contesto internazionale ma anche che la credibilità ed affidabilità personale di Conte sono pari allo zero. Sopravvalutato in Italia, il nostro Presidente del Consiglio è invece brutalmente sottovalutato sul terreno estero.

I suoi amici si riconsolano rilevando che “Giuseppi” è sempre meglio di “Giggino” che se lo vai trovare nel suo ufficio della Farnesina non lo trovi perché è evaporato.

Ma se questo è il livello dei governanti che l’Italia può permettersi c’è veramente da disperarsi per il futuro dei paese!

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Redazione8 Gennaio 2020

Le crisi internazionali, quella tra Usa ed Iran e quella libica, cadono come manna dal cielo sul governo italiano che appare indeciso a tutto tranne che a cercare di sopravvivere il più a lungo possibile. Il calcolo di Conte, Di Maio e Zingaretti è che più sarà forte l’eco mediatico delle minacce e delle ritorsioni belliche tra americani ed iraniani e più crescerà il conflitto tra i tanti aspiranti alla divisione del bottino libico, meno attenta l’opinione pubblica italiana sarà sulle contraddizioni della coalizione giallorossa che paralizzano il paese. In questo modo si allungherà automaticamente la speranza del Conte-bis di superare indenne le elezioni regionali del 26 gennaio, lo sfaldamento interno del Movimento Cinque Stelle e l’inconsistenza sempre più marcata di un Partito Democratico capace solo di occupare poltrone.

Un calcolo del genere non è solo assolutamente miope ma è anche la spia inequivocabile della pochezza irrimediabile della classe politica al potere. Sopravvivere per rilanciare un progetto di crescita del paese è legittimo e doveroso. Ma sopravvivere per sopravvivere è criminoso. Perché, proprio a causa di crisi internazionali che potrebbero intrecciarsi tra di loro diventando la più grande crisi mondiale dalla fine della seconda guerra ad oggi, la sopravvivenza fine a se stessa espone il paese a conseguenze potenzialmente gravissime.

Naturalmente è difficile immaginare che per far fronte ad uno stato di emergenza così grave si possa ricorrere alla crisi ed al ritorno alle urne in primavera. Ma è ancora più difficile prevedere che il governo attuale sia in grado di fronteggiare i possibili effetti delle tensioni e delle esplosioni internazionali. È troppo debole, troppo diviso, troppo pieno di incapaci e boriosi dilettanti per dare un minimo di affidamento ad una opinione pubblica giustamente preoccupata di quanto potrebbe avvenire da un momento all’altro.

Per gestire l’emergenza servirebbe un governo d’emergenza in cui fossero coinvolte tutte le forze politiche presenti in Parlamento. Non è forse questa la soluzione a cui si è ricorso nei momenti di grande difficoltà nella storia del paese?

Ma a chi spetta il compito di richiamare alle proprie responsabilità tutti i partiti se non al Presidente della Repubblica?

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Redazione7 Gennaio 2020

Finite le certezze della guerra fredda che avevano consentito all’Italia di delegare la propria politica estera (con la sola eccezione dei rapporti con il mondo arabo per le forniture energetiche) agli Stati Uniti ed alla Nato, il nostro paese ha vissuto per tutta la fase della Seconda Repubblica in bilico tra la fedeltà ai vecchi vincoli e l’ansia di sostituirli con dei nuovi. La rottura del 2011, quella che segnò la caduta del governo Berlusconi e l’avvento del governo tecnico di Monti, ha avviato un processo che ha portato una classe politica dominata dalla vecchia cultura ancora egemone del cattocomunismo, a sostituire progressivamente il vecchio ancoraggio alle boe degli Stati Uniti e della Nato alle boe dell’Unione Europea e dell’Onu. Il governo attuale giallorosso, a differenza anche di quello precedente segnato dalla spinta a sostituire il riferimento della Ue con quello della Russia di Putin, costituisce il punto di arrivo del processo di sostituzione a cui si è aggiunto un ulteriore elemento di novità rappresentato dall’influenza esercitata sui principali partiti dell’area governativa dall’azione politica del Vaticano di Papa Bergoglio. Il risultato non è stata la riappropriazione da parte dell’Italia della propria politica estera ma la piena e completa rinuncia ad esercitare il proprio diritto a tutelare gli interessi nazionali nei rapporti internazionali in favore di tre organismi sovranazionali con l’Onu, la Ue e la Santa Sede.

Quali risultati ha prodotto la convinzione che la politica estera italiana dovesse essere ispirata dalle Nazioni Unite, decisa dall’Unione Europea e segnata dal neopacifismo antioccidentale di Papa Bergoglio?

La risposta è nei fatti. In Libia essere stati a rimorchio di una Onu imbelle ed evanescente e di una Ue condizionata dagli interessi dei maggiori paesi europei ha portato alla sostanziale espulsione del nostro paese. E nel Mediterraneo ed in Medio Oriente, dove le ragioni geopolitiche collocano i principali interessi italiani, il pacifismo antioccidentale di Francesco spinge il nostro paese ad allontanarsi sempre di più dalla tradizionale alleanza con gli Stati Uniti con l’idea che riempire di morale la nostra politica estera ci porti a diventare una sorta di grande Svizzera estranea ad ogni tensione internazionale.

La sostanza, dunque, è che la politica estera del governo giallorosso rappresenta il fallimento del processo avviato nel 2011. Per superare questo fallimento non c’è che una strada. Quella di applicare il principio del “giusto o sbagliato, questa è la mia parte” e stabilire che la nostra parte non può essere un regime teocratico sciita che  vuole cancellare Israele dalla carta geografica e diventare padrone del Mediterraneo ma solo e soltanto l’Occidente!

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Redazione20 Dicembre 2019

Secondo Papa Francesco fermare le navi Ong non risolve il problema dell’immigrazione. Con tutto il rispetto che si deve al Vicario di Cristo va rilevato che la sua è la classica scoperta dell’acqua calda. Nessuno si è mai sognato di immaginare che per dare una soluzione alla questione dell’emigrazione dall’Africa e dal Medio Oriente all’Europa si debba procedere ad una impossibile blindatura dei porti e delle coste della penisola. Il blocco delle navi Ong e la chiusura dei porti sono state misure contingenti e parziali rivolte a porre l’Europa di fronte alla ferma intenzione dell’Italia di non continuare ad essere un paese-cuscinetto dove fermare e ghettizzare i migranti diretti nelle aree settentrionali del Continente.

Il Pontefice, che non è affatto uno sprovveduto, conosce perfettamente questa realtà. La sua sortita sull’argomento, però, non costituisce la logica continuazione del discorso sull’accoglienza e sull’immigrazione che è diventato il tratto caratteristico dell’attuale papato. Perché è avvenuta in un momento particolare della vita pubblica italiana. Quello in cui l’ex ministro dell’Interno ed attuale leader dell’opposizione del centro destra Matteo Salvini ha subito la richiesta del Tribunale dei Ministri di Catania di essere portato a processo per aver ritardato lo sbarco dei migranti presenti sulla nave Gregoretti. Si è trattato di una concomitanza fortuita o di un intervento rivolto a rendere noto al Parlamento italiano, a cui spetta il compito di decidere se mandare o meno a processo Salvini, che la Santa Sede considera il blocco delle navi un male ed il processo al capo della Lega un bene?

Applicando la regola dei vecchi gesuiti i quali affermavano che il sospetto è l’anticamera della verità, si deve necessariamente concludere che con la sua presa di posizione Papa Francesco non ha espresso un pensiero ispirato alla misericordia ma ha compiuto un atto di chiara e precisa rilevanza politica. Un atto teso a far sapere ai parlamentari italiani che il Vaticano è favorevole al processo a Salvini. Cioè un atto che costituisce una indebita ed inaccettabile ingerenza nelle vicende politiche italiane e che, in nome della laicità dello stato, dovrebbe spingere parlamentari e cittadini non confessionali ad invitare il Papa gesuita a stare al posto suo!

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Redazione19 Dicembre 2019

Non è solo un problema di coerenza politica e personale quello sollevato dall’annuncio di Luigi Di Maio che l’M5S voterà per mandare a processo Matteo Salvini sulla vicenda della nave Gregoretti dopo aver votato contro una analoga richiesta della magistratura per il caso della nave Diciotti. Naturalmente la vicenda mette in luce la concezione strumentale della giustizia del capo politico del movimento grillino. Ma sapere che per Di Maio la giustizia si applica a secondo delle convenienze non è una novità. Da sempre si sa che per il Movimento ed i suoi esponenti la giustizia si applica nei confronti dei nemici e si interpreta nei confronti degli amici. E quindi non stupisce affatto che Di Maio, dopo aver salvato Salvini quando il leader della Lega era suo alleato di governo, lo voglia colpire con la minaccia di un processo per reati che prevedono la galera ora che lo stesso Salvini è il leader dell’opposizione. Ciò che non stupisce ma preoccupa è che l’uso politicamente strumentale della giustizia trasforma il nostro paese da stato di diritto a repubblica sudamericana dove la legge è totalmente piegata agli interessi ed alle utilità delle forze politiche al potere. Non è di consolazione il fatto che una deriva del genere sia in atto anche negli Stati Uniti dove la maggioranza democratica della Camera vota a favore dell’Impeachment del Presidente per abuso di potere nella speranza di poter stroncare per via giudiziaria la corsa di Trump verso il rinnovo del mandato presidenziale. Semmai la vicenda americana indica che l’infezione giustizialista in atto nel nostro paese da alcuni decenni abbia infettato anche gli Stati Uniti e sia diventata l’ultima e disperata arma con cui le sinistre nazionali ed internazionali cercano di sopravvivere alla morte delle loro idee e dei loro progetti per la società del futuro.

Ma mentre in Usa il giustizialismo è agli esordi, nel nostro paese è in una fase tragicamente matura. Basta che un pezzo di magistratura ideologizzata sia in sintonia con una maggioranza parlamentare di stampo giustizialista per minacciare la galera al leader dell’opposizione facendo saltare qualsiasi regola democratica e trasformando la giustizia in strumento di arbitrio e sopraffazione.

Il Presidente della Repubblica, che auspica più dialogo e meno scontro nella politica, non ha nulla da dire in proposito?

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Redazione18 Dicembre 2019

È diventato un luogo comune la storia secondo cui il governo conta di tagliare le tasse attraverso la lotta all’evasione. Poiché si tratta di un proposito annunciato da ogni esecutivo in carica negli ultimi decenni e mai realizzato, nessuno ci fa più caso quando viene ripetuto pappagallescamente da chi si trova a rivestire una carica governativa. Tutti la considerano una balla e tirano via. Ma quella lanciata negli ultimi giorni da Giuseppe Conte non è una balla normale. E per questo non può essere ignorata o trattata come una solita bufala. Perché il Presidente del Consiglio ha annunciato che, grazie al tesoretto di oltre cento miliardi rappresentato dall’evasione fiscale e destinato ad esser recuperato dalla lotta ai contribuenti infedeli, si potranno tagliare la tasse del 20, del 30 e, addirittura, del 50 per cento.

Ma è sicuro che il famoso tesoretto valga i 100 miliardi con cui tagliare le tasse del 50 per cento? Ed è certo che la lotta all’evasione consentirà di recuperare le somme necessarie al più gigantesco abbassamento della pressione fiscale della storia d’Italia? Per la verità Conte ha candidamente ammesso di non saperlo: “Neppure i tecnici del Mef – ha confessato – sanno dire  quanto potremo recuperare”. Ma ha prontamente aggiunto che qualunque somma potrà essere trovata verrà impegnata non solo nel taglio drastico delle tasse ma anche nella liquidazione nei conti correnti di 2000 euro all’anno a chi paga in modo digitale.

Insomma, Conte ha promesso che le tasse verranno tagliate fino al 50 per cento ammettendo che i soldi per compiere questa clamorosa operazione sono ancora tutti da trovare.

La sua, allora, non può essere catalogata come balla normale, da archiviare insieme a tutte quelle simili propinate agli italiani dai governi che hanno preceduto l’esecutivo giallorosso. Si tratta di una balla clamorosamente esagerata e come tale va catalogata per cogliere appieno la cifra reale del più alto rappresentante del governo in carica. Altro che avvocato del popolo! Un magliaro di antico conio!

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Redazione17 Dicembre 2019

Fedele al suo grossolano giustizialismo il capo politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio non sa far altro che affrontare il problema della Banca Popolare di Bari pretendendo di sapere i nomi dei responsabili del dissesto. A lui non interessa come risolvere una questione da cui può dipendere il futuro economico e civile di una parte consistente del Mezzogiorno d’Italia. A lui importa solo comminare delle pene, e, soprattutto, rendere noto all’opinione pubblica che la vendetta sociale nei confronti dei colpevoli del fallimento bancario è stata compiuta nel più rigoroso dei modi. La sua è una giustizia di tipo primordiale. Non chiede il taglio delle mani di chi ha firmato bilanci fasulli o sbagliati ma, se potesse, lo farebbe ben volentieri per fornire agli italiani ed ai suoi elettori il segno che lo stato ha punito chi ha infranto o non rispettato le regole nella maniera più inflessibile ed esemplare.

Di Maio e gli altri giustizialisti della sua risma non prendono neppure in considerazione l’ipotesi che un giorno potrebbero essere chiamati a rispondere di qualche colpa e condannati a subire una qualche punizione capace di educare alla virtù il popolo per le loro colpe. Per definizione i giustizialisti, grossolani o raffinati che siano, si considerano esenti da ogni tipo di responsabilità penale, civile o semplicemente morale.

Ma la loro certezza di impunità è fondata sul nulla. Perché esiste una colpa gigantesca che grava sulla classe politica che ha governato il paese negli ultimi dieci anni. È quella certificata dall’Istat secondo cui nell’ultimo decennio quasi un milione di giovani provvisti in grandissima parte di istruzione superiore hanno abbandonato l’Italia per emigrare in paesi dove poter costruire il proprio futuro.

Definire un reato aver costretto questo milione di giovani ad allontanarsi dalle proprie città natali è sicuramente sbagliato da un punto di vista strettamente giudiziario. La responsabilità di aver determinato l’esodo od avervi semplicemente contribuito è, però, una forma gravissima di violazione degli interessi del paese.

Di Maio pensa alle pene esemplari per i banchieri delle banche fallite. Già che si trova in sindrome giustizialista incominci anche ad immaginare quando sarà chiamato, insieme alla sua banda di incompetenti demagoghi, a rispondere della resto di tradimento di una intera generazione. Quella che per non finire in una scatoletta di sardine ha puntato solo sul proprio lavoro dove sia possibile svolgerlo!

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Redazione16 Dicembre 2019

Gli stessi autorevolissimi personaggi che annunciavano come con la Brexit la City di Londra si sarebbe svuotata di capitali decisi a trasmigrare nell’Europa continentale per paura delle conseguenze drammatiche dell’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, oggi hanno ribaltato esattamente la loro fosca previsione. E con la stessa sicumera messa in mostra in precedenza vaticinano che, a causa della Brexit e della prevedibile decisione di Johnson di fare di Londra un paradiso fiscale, l’Italia perderà ben presto una gran parte dei suoi capitali attratta dal fisco benevolo della “perfida Albione”.

Un rischio del genere non è affatto peregrino. E per scongiurarlo non basterà sicuramente la proposta di un veto del governo italiano ad un qualche accordo tra Ue e Gran Bretagna sul futuro accesso inglese al mercato continentale. Per battere la concorrenza fiscale, che di sicuro il governo conservatore inglese inserirà nella sua strategia economica, non serviranno né veti, né dinieghi, né barriere. Per battere la concorrenza non c’è altro modo che la concorrenza stessa. Ma la Ue è in grado di mettere in campo una concorrenza fiscale in grado di competere con la futura concorrenza fiscale inglese?

L’attuale Unione Europea non ha alcuna possibilità di fronteggiare la concorrenza con la concorrenza. Per il semplice motivo che la sua cultura politica dominante esalta a parole la libertà economica ma nei fatti non riesce a liberarsi delle pastoie dell’eredità ideologica delle varie forme di marxismo che hanno dominato la scena politica continentale dell’infinito secondo dopoguerra. La risposta alla Gran Bretagna decisa ad attrarre i capitali europei non verrà dalla Ue ma dai singoli stati che all’interno dell’Unione già adesso cavalcano la concorrenza fiscale a scapito degli altri paesi europei, come l’Italia, fermi all’idea che solo più tasse può garantire la conservazione dello stato sociale. Olanda, Irlanda e Lussemburgo, cioè i paesi che già da tempo garantiscono condizioni più favorevoli ai capitali europei schiacciati dai torchi fiscali dei propri paesi, saranno obbligati a rincorrere Londra con politiche sempre più accoglienti. Il tutto, ovviamente, a proprio vantaggio ed a discapito di chi rimane ostinatamente fermo sulla linea del “ più tasse, più assistenza”.

Uno scenario del genere dovrebbe far riflettere il governo italiano. Che avrebbe l’occasione storica di rilanciare la propria economia trasformando il Sud del paese in una zona fiscalmente più attrattiva di ogni altra presente in Europa ed oltre-Manica. Ma quale governo visto che quello attuale è capace solo di rincorrere l’archeologia culturale espressa dalle sardine?

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Redazione13 Dicembre 2019

Non era vero che Boris Johnson aveva sbagliato campagna elettorale e che la sua insistenza sulla Brexit non era riuscita a convincere il consenso che si andava addensando sulle proposte del leader laburista Corbyn basate sul binomio più tasse e più nazionalizzazioni.

Non era vero, dunque, quello che i grandi media nazionali hanno ossessivamente ripetuto come se le elezioni inglesi si fossero dovute tenere in Italia invece che in Gran Bretagna. La loro campagna elettorale, fondata sulla piena adesione alla ideologia paleo-marxista di Corbyn e sul disappunto di non poter promuovere anche in Italia l’applicazione del programma elettorale laburista, non è servita a nulla tranne che a mettere ancora una volta in evidenza la caratteristica di fondo della stragrande maggioranza dell’informazione italiana. Quella di essere ferma ad un sinistrismo talmente vecchio e stantio da non essere neppure vivificato ed attualizzato da quel conformismo politicamente corretto che domina incontrastato nella parte progressista del mondo occidentale.

La vittoria di Johnson, ottusamente classificato dai media nostrani come un sovranista salviniano inglese e non come un conservatore britannico che rappresenta la perenne convinzione della propria base elettorale che a Dover incomincia l’Africa, non costituisce solo una ulteriore spinta alle forze politiche italiane accomunate a Boris per la critica alla Ue franco-tedesca, ma solleva all’interno dei nostri confini il caso dell’informazione resa bugiarda dal pregiudizio ideologico.

Di questo tipo d’informazione, che domina incontrastata nelle grandi reti televisive pubbliche e private e nei più grandi organi di stampa del paese, non ci si può fidare. Sia perché racconta sempre e comunque una realtà totalmente deformata dalla propria visione ideologica ferma a tempi lontani e superati. Sia perché è refrattaria ed ostile ad ogni forma di pluralismo rifiutandosi di registrare qualsiasi narrazione contraria alla propria visione o, peggio, irridendo alle narrazioni divergenti dalla ortodossia trattandole come sciocchezze di illetterati incapaci di abbeverarsi alla verità rivelata.

Chi si stupisce e si lamenta per il crollo verticale delle vendite dei giornali ed il calo degli ascolti faccia tesoro del caso Johnson. Il rifiuto del pluralismo uccide l’informazione!