La guerra nel Pd e l’Esecutivo di tregua | Arturo Diaconale
Democratic Party (PD) leader Matteo Renzi during a press conference in Rome, 05 March 2018. Italy's ex-Premier Matteo Renzi announces his resignation as Democratic Party secretary after poor results in election. ANSA/ETTORE FERRARI

7 Marzo 2018
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I risultati elettorali e il semplice buon senso vorrebbero che la scelta dei prossimi presidenti di Camera e Senato cadesse sui rappresentanti dei partiti usciti vincitori dalla competizione elettorale. Non avendo il voto popolare espresso una maggioranza definita, Palazzo Madama dovrebbe andare a un esponente del centrodestra (in particolare della Lega visto che è il partito maggiore della coalizione) e Montecitorio a un esponente del Movimento Cinque Stelle.

Sbaglia chi sostiene che l’individuazione dei presidenti dei due rami del Parlamento dovrebbe servire a preparare il terreno alla formazione di una maggioranza di governo. Le due questioni, quella delle presidenze e quella del governo, vanno nettamente separate. Per la ragione che mentre per le cariche parlamentari si può applicare immediatamente la logica dei risultati elettorali, per la futura maggioranza bisognerà necessariamente attendere l’esito della partita che si è aperta all’interno del Partito Democratico, formazione politica da cui dipende la possibilità di costruire o meno una maggioranza di governo. I vincitori del 4 marzo, centrodestra da una parte e grillini dall’altra, non sono in grado di avere una maggioranza autonoma. Matteo Salvini può anche sperare di conquistare una ventina di transfughi al Senato per raggiungere la maggioranza a Palazzo Madama ma, così come Luigi Di Maio, sa bene che solo con il voto o l’appoggio esterno di una parte consistente del Pd si potrà formare un governo in grado di avviare la legislatura.

Tutto si gioca, allora, sull’esito della partita che è iniziata nel Partito Democratico con le dimissioni annunciate ma non date di Matteo Renzi. Centrodestra e Cinque Stelle puntano sulla spaccatura definitiva del partito della sinistra per poter sperare di avere i voti indispensabili alla formazione del governo.

Le polemiche scoppiate nel Pd subito dopo le dimissioni a termine di Renzi lasciano pensare che la frantumazione del partito potrebbe avvenire rapidamente. Ma la previsione non tiene conto della capacità di resistenza di un segretario che non ha alcuna intenzione di uscire di scena limitandosi a gettare la spugna. Non è da escludere, allora, che i tempi diventino più lunghi. E che per far maturare la crisi definitiva del Pd sia necessario un Esecutivo di emergenza capace di gestire il Paese in attesa che Renzi e i suoi nemici finiscano di pugnalarsi a vicenda.

Adelante, Pedro, con juicio!