Nella sua prima intervista dopo l’elezione nel Consiglio di Amministrazione della Rai, Riccardo Laganà ha tenuto a sottolineare la differenza esistente tra la sua nomina dovuta all’investitura avuta dai dipendenti del servizio pubblico radiotelevisivo e quella degli altri consiglieri nominati dai partiti. Come a voler affermare che la propria legittimazione, frutto della vittoria nelle elezioni interne alla Rai, va considerata oggettivamente più forte di quella degli altri consiglieri designati dalle forze politiche presenti in Parlamento e dai prossimi altri due componenti del Cda che saranno nominati direttamente dal Governo.
La posizione di Laganà non deriva dall’esultanza per aver battuto con quasi duemila voti i candidati dei una volta fortissimi sindacati interni. E non dipende neppure dalla legittima ingenuità di un tecnico di base proiettato per la prima volta al vertice della più grande azienda di comunicazione e di cultura del Paese. È la spia di una convinzione largamente diffusa nella società italiana secondo cui è molto più legittimante agli occhi del Paese essere stato eletto in una carica pubblica da una categoria o dal numero ridotto dei dipendenti di una azienda piuttosto che dalle forze politiche presenti in Parlamento e da quelle unite in una coalizione di governo.
Da questo punto di vista Laganà è l’equivalente di Pier Camillo Davigo, eletto con larga messe di voti dai magistrati al Consiglio Superiore della Magistratura e posto dai media e dai social network in una condizione di maggiore considerazione e privilegio rispetto agli altri membri del Csm di nomina parlamentare.
Qualcuno pensa che il fenomeno dipenda dalla tendenza alla supremazia della democrazia diretta rispetto a quella rappresentativa. Non è forse vero che in nome della democrazia diretta i vertici del Movimento Cinque Stelle hanno prima selezionato cinque candidati tra i tanti concorrenti al Cda della Rai e poi hanno fatto eleggere i loro due prescelti dai militanti grillini iscritti alla piattaforma Rousseau spacciando questa forma di semplice lottizzazione in una grande espressione di volontà popolare?
In realtà, a parte la lottizzazione mascherata del M5S, la contrapposizione non è tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. È, più semplicemente, tra neo-corporativismo e sistema liberale della rappresentanza popolare. Quel neo-corporativismo che consente a Davigo e a Laganà di considerare molto più legittimanti i due-tremila voti ottenuti dalla propria categoria o dai colleghi dipendenti della propria azienda rispetto ai milioni di voti che consentono alle forze politiche di essere presenti in Parlamento e di dare un governo al Paese. Davigo e Laganà, ovviamente, sono l’espressione del loro tempo. Ma questo tempo è stato preparato e viene perpetuato dall’insipienza di troppi partiti sprovvisti di autentica vocazione democratica!