SS Lazio | Arturo Diaconale


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Redazione9 Marzo 2020

Da fronteggiare non c’è solo la paura da coronavirus. Almeno per quanto riguarda i tifosi della Lazio c’è una seconda preoccupazione che serpeggia sempre più insistente e che, tanto per rimanere nel clima da emergenza sanitaria in atto, potrebbe venire definita come il frutto della sindrome da scudetto negato del 1915.

La paura, in altri termini, è che il campionato in corso faccia la fine di quello interrotto dallo scoppio della Grande Guerra e che , come allora l’interruzione divenne l’occasione per negare alla Lazio il riconoscimento di uno scudetto conquistato sul campo, una eventuale interruzione dell’attuale campionato a causa del coronavirus possa impedire alla Lazio di oggi di conquistare quello scudetto verso cui viene al momento proiettata dai brillanti risultati che l’hanno portata al vertice della classifica ad un solo punto dalla Juventus.

Questa sindrome da scudetto negato del 1915 si va diffondendo quasi quanto l’epidemia dell’influenza proveniente dalla Cina. Perché fa scattare l’antico timore che, in una situazione di massima incertezza provocata dall’emergenza sanitaria che paralizza il paese, gli interessi dei grandi club possano scattare ai danni della società biancoceleste.

Così come non bisogna cedere al panico per il coronavirus, non  ci si deve abbandonare al panico per sindrome da scudetto negato. Al momento l’interruzione del campionato è una ipotesi ancora da verificare. L’aumento dell’emergenza per cause imponderabili potrebbe forse provocare una pausa. Che, però, potrebbe essere chiusa ad emergenza eccezionale superata, consentendo la ripresa delle partite e la conclusione regolare del campionato. Magari nel mese dedicato agli Europei che potrebbero slittare a loro volta visto che l’epidemia non è solo italiana ma è ormai diffusa anche nel resto del Vecchio Continente.

Queste, comunque, sono tutte ipotesi prive di concretezza. Di certo ci sono due evidenze. Da un lato la ferma volontà della società, della squadra e di tutti i tifosi di pretendere la regolarità del torneo scongiurando il rischio di ripetere il 1915. Anzi, di battersi fino in fondo per fare in modo che nel 2020 si possa festeggiare non uno ma due scudetti: quello antico e quello presente! Dall’altro la consapevolezza che non sarà facile imbrogliare il Presidente Claudio Lotito da parte di ministri demagoghi e dirigenti irresponsabili che non capiscono come fermare il campionato significherebbe far saltare tutti i diritti televisivi e condannare al fallimento la gran parte delle società calcistiche italiane!

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Redazione2 Marzo 2020

È bene fare un passo indietro rispetto al caos generale in cui è piombato il calcio a causa del Coronavirus. E tornare sulla polemica precedente, quella sul mancato anticipo di Atalanta-Lazio. In cui ciò che colpisce non è la disparità di giudizio. Nessuno mette in discussione l’interesse dell’Atalanta ad anticipare di un giorno la partita con la Lazio per avere 24 ore in più di riposo e di preparazione in vista dell’incontro del martedì successivo con il Valencia. Al tempo stesso nessuno dovrebbe mettere in discussione l’interesse della Lazio a non anticipare di un giorno la gara con l’Atalanta per usufruire di tutto il tempo necessario per far riposare i giocatori e preparare al meglio una partita con una diretta concorrente per la Champions.

I due interessi sono entrambi legittimi e comprensibili. Ciò che colpisce ed irrita però è che mentre l’interesse de l’Atalanta è stato santificato, quello identico della Lazio è stato criminalizzato dai commentatori dei media settentrionali ben felici di rispolverare i soliti pregiudizi acrimoniosi nei confronti della società biancoceleste e del Presidente Claudio Lotito arricchendoli, per l’occasione, con una robusta dose di moralismo da strapazzo.

Le ragioni di questa disparità di giudizio e di tanta animosità sono facilmente comprensibili. La fase finale dell’attuale campionato è segnata dalla sfida della Lazio a Juventus, Inter per lo scudetto ed all’Atalanta (almeno fino a questo momento) per il quarto posto che vale la Champions. Creare un clima ostile all’incomodo della Capitale può aiutare a rendere la sua corsa più complicata ed difficile. Che c’è di meglio di un po’ di criminalizzazione fatta di pregiudizi conditi da un pizzico di razzismo territoriale per rendere incandescenti i campi di Torino e Bergamo dove la Lazio si giocherà una parte delle sue ambizioni?

Tutto questo, però, non preoccupa e spaventa affatto. Quando il gioco si fa duro, si dice, i duri incominciano a giocare. E nella Lazio i duri non mancano! A partire dal suo Presidente che dopo aver difeso le ragioni della sua società ora si batte per far uscire il calcio nazionale dal caos da Coronavirus che minaccia la conclusione corretta del campionato.

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Redazione24 Febbraio 2020

La speranza è il calcolo della probabilità. Ad esso si sono aggrappati e si aggrappano quanti sperano che la Lazio non riesca ad arrivare nella ultimissima fase finale del Campionato ed essere in grado di giocare le proprie carte per tagliare per prima il traguardo dello scudetto.

Presto o tardi, hanno detto e ripetono i gufetti stupiti e preoccupati per il percorso di crescita della squadra biancoceleste, si deve fermare. Non perché abbia carenze, stia perdendo freschezza, vivacità ed efficacia di gioco, capacità di conseguire risultati. Ma perché il calcolo delle probabilità stabilisce che arriverà comunque il momento in cui la parabola, dopo aver raggiunto l’apice, incomincerà la fasce discendente.

Un ex dirigente e manager uscito da giro calcistico per questioni giudiziarie ha addirittura stabilito che la legge delle probabilità sarà rapida visto che il problema della Lazio è la continuità. Come se il numero delle partite utili conseguito fino ad ora da Simone Inzaghi e dai suoi ragazzi non fosse sufficiente a fissare una linea di continuità destinata a continuare ad andare avanti. Naturalmente vanno fatti tutti i debiti scongiuri nei confronti di questi “calcolatori” del malaugurio. Ma, per quanto mi riguarda, oltre a non credere troppo a queste convinzioni balzane, ho una esperienza personale che mi fa dubitare dell’efficacia del calcolo delle probabilità. Avevo uno zio che per anni ed anni ha giocato la stessa schedina al Totocalcio nella certezza assoluta che presto o tardi sarebbe risultata vincente. Ma in vent’anni non è mai successo.

Perché mai alla Lazio potrebbe o dovrebbe succedere in quattro mesi?

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Redazione17 Febbraio 2020

Se me lo avessero detto non ci avrei mai creduto. Che dopo quasi quattro anni di esperienza come direttore della Comunicazione della S.S. Lazio e portavoce del Presidente Claudio Lotito, mi sarei ritrovato a rivivere le stesse emozioni che da tifoso biancoceleste mi avevano felicemente agitato e riempito nelle fasi finali degli scudetti del ’74 e del 2000.

La mia passione laziale è antica. Risale alla metà degli anni ’50, quando ero bambino ed i miei primissimi miti erano Lovati, Fuin, Pinardi, Muccinelli, Vivolo, Selmosson “Raggio di Luna”. Ma quella di componente della società è più recente. Alla fine di luglio del 2015 entro in una riunione del Consiglio di Amministrazione della Rai senza spegnere il cellulare e ricevo una telefonata da un numero sconosciuto. “Ciao, sono Claudio, lo faresti il direttore della Comunicazione della Lazio?”. Non c’è bisogno di riportare la mia risposta segnata da un intreccio perfetto tra soddisfazione professionale e felicità di tifoso. Ma se approfitto del “Taccuino biancoceleste” per raccontare questo episodio personale è solo per fornire una testimonianza diretta del percorso seguito dalla società e dalla squadra da quella data ad oggi. Allora sarebbe stato preso per matto chi avrebbe pronosticato che dopo quattro anni la Lazio avrebbe partecipato alla corsa per lo scudetto. La pesante contestazione degli anni precedenti aveva lasciato segni dolorosi. Claudio Lotito viveva (e continua a vivere) sotto scorta da anni per non essersi arreso alle violenze verbali ed alle minacce dei contestatori. Con lui si trovavano in una condizione di stato d’assedio ad opera di parte della tifoseria e dei media i suoi più stretti collaboratori, a partire da Igli Tare, professionista esemplare e uomo tutto d’un pezzo. E dall’esterno nessuno avrebbe scommesso, dopo la vicenda Bielsa e la scommessa su Simone Inzaghi, che dopo il Piave ed il Monte Grappa ci sarebbe stato Vittorio Veneto.

Ricordare quel punto di partenza, che già era un grande risultato visti i dieci anni precedenti di resistenza faticosa e dolorosa, serve a valutare correttamente il percorso di crescita da allora ad oggi. Un percorso segnato dalla guida illuminata ed innovativa del Presidente, dalle intuizioni geniali del direttore sportivo e dal lavoro costante, minuzioso e prezioso di un allenatore come Simone Inzaghi che con il suo staff ha plasmato un gruppo di ragazzi eccezionali non solo sul piano tecnico ma anche umano e morale. Un percorso, poi, favorito dal prestigio e dall’esperienza di Angelo Peruzzi, dalla professionalità di Armando Calveri, dall’impegno di Stefano De Martino, dalle presenze innovative di Anna Nastri e Sara Zanotelli e da uno staff medico di altissimo livello guidato dal professor Fabio Rodia.

Grazie a questo percorso, di cui sono testimone privilegiato, oggi si sogna. Concretamente. Come nel ’74, come nel 2000. E, quel che è più importante, si sogna tutti insieme, società, squadra e tifoseria finalmente unita!

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Redazione10 Febbraio 2020

I tifosi della Curva Nord hanno creato una tradizione di coreografie di altissimo livello che non solo resiste nel tempo ma che si arricchisce e migliora ogni anno di più. La settimana scorsa questa tradizione ha avuto una impennata che non può essere ignorata. L’aquila in volo disegnata con la luce dei telefonini, che ha occupato l’intera curva, va considerata una vera e propria opera d’arte. Perché se attraverso l’arte si vuole stupire, toccare al fondo i sentimenti, commuovere ed esaltare, si deve automaticamente riconoscere che quella compiuta dai tifosi della Nord è stata una vera, autentica, grandissima opera d’arte, meritevole di ogni applauso, considerazione e di un premio adeguato.

Questo premio deve essere fornito dalla società e dalla squadra biancoceleste con l’impegno ad andare avanti sul percorso di crescita che viene seguito con tanta determinazione ormai da parecchi anni. Nel calcio, si sa, non si può vincere o stravincere sempre. Ma se la volontà di onorare la maglia ed i propri tifosi continua ad esserci e diventa il tratto distintivo della Lazio dell’avvio del terzo millennio, è certo che gli artefici dell’ultima grande prova d’arte e di quelle precedenti della Curva Nord la debbono considerare come un premio alla loro genialità e passione.

Per troppo tempo c’è stata distanza e separazione tra società e tifoseria. Ora, però, quell’aquila di luce va considerata il segno che la distanza è stata finalmente colmata. Questo non significa che i tifosi si sono appiattiti sulla società o che è avvenuto il contrario. La tifoseria laziale non è fideistica ma dialettica e sa bene che il ruolo della società deve essere diverso da quello dei sostenitori e viceversa.  La distanza colmata significa invece che si è ritrovata una unità di intenti in nome di nuove speranze e più grandi ambizioni.

Si cammina fianco a fianco, dunque. Per una aquila sempre più grande e brillante. Alla faccia di chi cerca di ricreare le vecchie divisioni, magari diffondendo l’infamante sospetto che i tifosi laziali stanno perseguitando la mamma di Zaniolo (a cui va un augurio di pronta guarigione) arrivando addirittura a depredarne l’automobile. Gli artisti, infatti, non perseguitano. Creano!

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Redazione4 Febbraio 2020

Il mancato arrivo in Italia del campione del mondo francese Olivier Giroud consente di compiere una riflessione sulla bizzarria della stampa e dei media sportivi del nostro Paese. La bizzarria in questione non è quella dei giornali e dei media del Nord che facevano il tifo affinché Giroud andasse all’Inter. I lettori e gli ascoltatori di questi organi d’informazione sono in gran parte settentrionali ed in buona parte interisti. Per cui c’è un comprensibile motivo commerciale per questo tipo di tifo. La bizzarria, invece, sta in quei media che hanno sottolineato come l’interessamento della Lazio per il giocatore del Chelsea avrebbe dimostrato che la società biancoceleste ed il suo Presidente vogliono sul serio puntare alla Champions League e, magari, anche allo scudetto.

Secondo gli autorevoli opinionisti di questi media, dunque, non sarebbero i risultati ottenuti fino ad ora a legittimare ed a rendere concrete le ambizioni della Lazio, ma solo il tentativo di compiere un colpo prestigioso nel mercato invernale. Come dire che non conta il lavoro di anni ed anni su un progetto di crescita, ma solo i soldi da spendere sulla roulette delle compravendite di gennaio. Bizzarro, no, un atteggiamento del genere? Certo, ma a bizzarrie dei media non stiamo affatto scarsi. A dimostrarlo c’è l’indifferenza anche di parecchi giornalisti romani sul numero che spetterebbe all’eventuale primo scudetto dell’era Lotito. Terzo, dopo quelli leggendari del ’74 e del 2000? Oppure quarto dell’intera storia della Società Sportiva Lazio?

Già, sulla questione del terzo e primissimo scudetto biancoceleste, quello della stagione 1914-15, solo pochi e coraggiosi giornalisti hanno mostrato interesse. Eppure tutti i documenti raccolti dall’avvocato Gian Luca Mignogna e presentati alle autorità calcistiche nazionali dimostrano che la rivendicazione della Lazio è assolutamente fondata. Come se fosse indifferente se la società biancoceleste e soprattutto i suoi tifosi potessero vantare la conquista del massimo trofeo nazionale nel campionato che venne interrotto dalla Prima guerra mondiale a cui molti ragazzi con l’aquila sul petto parteciparono con un largo contributo di sangue e di vite.
La bizzarria è non riconoscere che la storia, come la classe, non è acqua. E la Lazio ha l’una e l’altra!

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Redazione13 Gennaio 2020

Sabato sera i gufetti che avevano soppiantato i tordi sugli alberi dei Lungotevere sono stramazzati al suolo. La Protezione animale, prontamente accorsa, ha sentenziato che a provocare lo straordinario fenomeno non era stata una improvvisa epidemia aviaria ma il risultato di Lazio-Napoli. I gufetti, semplicemente, non avevano retto il fallimento dei loro malocchi.

Molti di questi gufetti erano provenienti dal Nord e speravano in un passo falso dei biancocelesti in grado di favorire la corsa verso il vertice della classifica delle squadre settentrionali. Altri venivano dalla sponda romana occupata dai “cugini” (a proposito, auguri sinceri di pronta guarigione a Nicolò Zaniolo) ed avevano motivazioni più che comprensibili. Un piccola parte, infine, era composta dagli ultimi esemplari degli aquilotti gufizzati. Cioè di quel sempre più ridotto numero di laziali masochisti che se non piangono, criticano e si lamentano non si divertono. E che avevano prima preso a pretesto la battuta sulla “Lazietta” per pronosticare la fine dell’avventura dei ragazzi di Inzaghi senza capire che il termine non voleva essere una valutazione di merito sulle squadre del passato ma solo la constatazione di come gli avversari consideravano la società di quelle epoche.

Poi si erano inalberati per la definizione “occasionale” data dal Presidente Claudio Lotito allo scudetto del ’74 senza rendersi conto che proprio l’occasionalità ha reso l’evento eccezionale, straordinario, meraviglioso ed ha trasformato i suoi artefici nei simboli dell’orgoglio laziale. E, infine, si erano fatti venire il mal di pancia per i riferimenti, sempre del Presidente, allo scudetto del 2000, diretti non a criticare i campionissimi dell’epoca ma a rilevare che la finanza applicata al calcio può portare a risultati importanti ma può anche produrre fallimenti completi. La finanza è, per definizione, un rischio.

Naturalmente la scomparsa dei gufetti è solo temporanea. Presto o tardi torneranno. Per questo i tifosi laziali hanno il dovere di stare con i piedi ben saldi per terra. Senza però rinunciare alla libertà di sognare e di volare in alto!

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Redazione8 Gennaio 2020
Una delle regole auree del giornalismo stabilisce che se un tuo scritto viene male interpretato e suscita equivoci, vuol dire che non era chiaro. Per questo, a proposito delle polemiche suscitate dalla mia prima “Rubrica biancoceleste”, cerco di fornire alcune precisazioni.

La prima è che il termine “Lazietta” non è stato inventato da me ma da quei critici e denigratori che negli anni passati, sia nei periodi più bui e drammatici che in quelli fulgidi dei due scudetti, si ostinavano a considerare la nostra una squadra di basso livello esterna ed estranea al gotha del calcio nazionale a causa della precarietà della sua condizione societaria.

Non era mia intenzione mettere a confronto la Lazio odierna con quelle del passato, ma solo ribadire il dato inequivocabile che solo la presenza di una proprietà presente, attiva, capace e solida riesce a dare continuità ad un progetto di crescita di una squadra proiettandola verso i massimi livelli del calcio nazionale ed internazionale. Quando manca questa condizione proprietaria anche le squadre provviste di grandi giocatori soffrono ed entrano in crisi.

La seconda precisazione è che non ho deciso di scrivere una “Rubrica biancoceleste” per ragioni professionali (il mio ruolo di portavoce del presidente Claudio Lotito e direttore della comunicazione), ma solo perché sono un tifoso laziale da parecchi decenni prima del mio incarico e mi sembra non solo corretto ma anche doveroso dare voce alla mia passione usando canali mediatici personali e non della società.

La terza precisazione, infine, riguarda il tipo di contestazioni che ho ricevuto. Proprio perché tifoso da sempre dei colori biancocelesti, non intendo prendere lezioni di lazialità da nessuno (tantomeno da alcuni di quei denigratori del passato che mi hanno contestato per aver citato il termine “Lazietta” da loro sempre usato per metterci sempre e comunque all’angolo rispetto alle squadre del Nord ed alla “cugina” della Capitale).

A tutti coloro che poi mi hanno aggredito verbalmente rispondo, sorridendo, citando quanto disse Totò in “Guardie e ladri” ad Aldo Fabrizi che gli ordinava di fermarsi minacciandolo in caso contrario di sparare a scopo intimidatorio: “Io non mi intimido!”.

Non l’ho fatto per una vita e per ragioni politiche. Figuriamoci se lo faccio ora di fronte a chi non capisce per inguaribili pregiudizi.

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Redazione7 Gennaio 2020

Incomincio da oggi sui social una rubrica settimanale dedicata alla S.S. Lazio in cui svolgo il ruolo di Portavoce del Presidente Claudio Lotito e direttore della Comunicazione.

Per chi è digiuno di storia calcistica di Roma i festeggiamenti per il centoventesimo anniversario della fondazione della S.S. Lazio forniscono la spiegazione più semplice dell’affermazione secondo cui quella biancoceleste è la prima squadra della Capitale.

Ma accanto a questa spiegazione, fondata sulla inequivocabile constatazione che la S.S. Lazio è nata il 9 gennaio del 1900 prima di ogni altra squadra nata all’ombra del Campidoglio e partecipante al massimo campionato nazionale, c’è un seconda argomentazione che non poggia sul dato anagrafico ma su un merito altrettanto indiscutibile. Nel secondo dopoguerra le infinite traversie societarie avevano trasformato la Lazio in “Lazietta”. Cioè in una squadra di antico lignaggio caduta in disgrazia. Che per una serie di circostanze straordinarie poteva anche compiere imprese impossibili come la conquista di uno scudetto o la disperata salvezza dal “meno nove”, ma rimaneva sempre e comunque Lazietta. E tale restava anche quando si ritrovava un Presidente che apriva la fase dell’ingresso della finanza nel mondo del pallone e conquistava con grandissimi campioni il secondo scudetto.

Oggi la Lazietta è diventata Lazio. Ha compiuto un salto di qualità grazie alla crescita ed alla continuità societaria assicurata dall’impegno di Claudio Lotito. E da nobile decaduta capace occasionalmente di ottenere risultati eccezionali è diventata in maniera stabile una delle eccellenze del calcio italiano in grado di rivendicare legittimamente, grazie al proprio rendimento, il ruolo di prima squadra della Capitale.

Chi lo nega, paradossalmente, lo ammette e lo conferma. Perché implicitamente confessa che il tempo in cui la competizione era solo con la Juventus o con l’Inter ed il Milan è finito. Ora c’è anche e soprattutto (per chi vive sotto il Campidoglio) una Lazio senza diminutivi di sorta!

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Redazione20 Maggio 2019

Vittorio Feltri ha sostenuto che la Lazio non si deve vantare di aver vinto la Coppa Italia ma vergognarsi di averlo fatto a causa del rigore non concesso per il fallo di mano di Bastos e dell’invito ad andare in quel posto mandato da Claudio Lotito all’allenatore atalantino, imbufalito per la presunta ingiustizia subita.

Feltri ha scritto che la partita della Lazio è stata “vomitevole” e che la squadra biancoceleste si è comportata in maniera cafonesca, a conferma che la mancanza di stile sta dominando anche nel mondo del calcio.

Naturalmente, avendo visto la partita (dubito che Feltri l’abbia fatto), penso che definire vomitevole una partita giocata alla spasimo da entrambe le squadre sia una esasperazione giustificata solo dalla delusione di un tifoso convinto che la vittoria dovesse spettare per diritto (divino o semplicemente nordico) ai propri colori. Del rigore non parlo perché non lo ha visto nessuno, né in campo, né sulle panchine, né sugli spalti, né tra gli addetti del Var. Così come non parlo delle recriminazioni sui falli ai danni di Correa che avrebbero potuto portare all’espulsione di un difensore atalantino.

Mi permetto di avanzare una sola considerazione, invece, sul tema dello stile che per Feltri sarebbe degradato a cafonaggine per colpa laziale. La considerazione è che la predica giunge da una cattedra inappropriata. Feltri è un arbiter elegantiarum in tema di vestiario, ma è destinato a passare alla storia del giornalismo italiano come il promotore di uno stile e di un linguaggio talmente popolare e colorito da apparire troppo spesso sguaiato e volgare.

Il direttore di “Libero” rivendica il proprio diritto a scrivere e parlare come meglio crede. Ma pretendere di essere il bue che dà del cornuto all’asino è decisamente troppo. Anche per un tifoso deluso.