Ma un provvedimento cautelare frutto di una sentenza di primo grado appellata può bloccare l’attività di una qualsiasi formazione politica e non solo del partito che in questo momento pare essere quello che gode del maggior consenso nel Paese? È sbagliato porre la questione sollevata dalla sentenza del Tribunale del Riesame di Genova come un problema riguardante solo la Lega di Matteo Salvini. La questione è molto più alta e non riguarda nemmeno il tema della superiorità della politica sulla giustizia o del contrario, ma quello del funzionamento della democrazia liberale.
Luigi Di Maio, ormai abituato a pronunciare banalità a raffica, può anche liquidare la faccenda ripetendo il mantra ipocrita del giustizialismo più becero secondo cui le sentenze si rispettano. Ma, a parte la considerazione che se dovesse essere rispettata fino in fondo la sentenza genovese dovrebbe indurre il Movimento Cinque Stelle a interrompere la collaborazione di governo con la Lega all’insegna che non si governa insieme con i truffatori (non è forse vero che i grillini hanno posto la pregiudiziale contro Silvio Berlusconi in nome delle sentenze di colpevolezza del Cavaliere?), la banalità di Luigi Di Maio non coglie la caratteristica più grave del sequestro dei conti leghisti.
La sentenza genovese è un precedente. Che apre la strada alla possibilità di espellere dalla scena politica democratica qualsiasi forza politica applicando la regola della responsabilità collettiva invece che quella personale sul terreno patrimoniale. La sentenza che parte dalla condanna a due anni di Bossi e a quattro del tesoriere Belsito condanna l’intera comunità della Lega, passata, presente e futura, a non potere compiere alcuna iniziativa di natura politica fino alla concorrenza dei 49 milioni di euro. Ma questa sentenza che oggi colpisce il movimento leghista domani potrebbe trovare una nuova applicazione nei confronti di qualsiasi altra formazione politica. Anche dello stesso Movimento Cinque Stelle, magari in seguito a una qualche indagine di natura patrimoniale causata da qualche denuncia sulle tante donazioni che militanti e simpatizzanti di varia natura versano nelle casse grilline.
Una delle regole indicate da Giovanni Falcone per la lotta alla mafia era di colpire i patrimoni. Se i partiti sono considerati delle mafie quella regola può anche essere applicata alla politica. Ma, come aveva capito lo stesso giudice Falcone, se passa questa generalizzazione la democrazia liberale è colpita a morte!