La decrescita paranoide di Toninelli | Arturo Diaconale

1 Agosto 2018
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Per bilanciare il successo della linea di Matteo Salvini sul freno all’occupazione i dirigenti del Movimento Cinque Stelle hanno incominciato a puntare sul tema caro alla propria base identitaria costituito dal no alle grandi opere pubbliche.

I freni alla Tav e alla soluzione per l’Ilva posti da Luigi Di Maio sono chiaramente un anticipo dell’intenzione da sempre annunciata dai grillini di bloccare i lavori dell’alta velocità Torino-Lione e di smantellare la più grande acciaieria del nostro Paese. Il vice presidente del Consiglio gioca volutamente con l’ambiguità per nascondere la scelta ideologica presa a suo tempo dal M5S. Più apertamente di Luigi Di Maio, invece, il ministro Danilo Toninelli ha messo in chiaro che a motivare il no alle grandi opere dei grillini è la constatazione dei gravi fenomeni corruttivi provocati da questo tipo di politica industriale. Secondo Toninelli, infatti, le grandi opere hanno prodotto la grande illegalità. Al punto da diventare il maggior fattore corruttivo del Paese. Di qui, secondo il ministro grillino, la necessità di abbandonare la vecchia politica delle infrastrutture di grandi dimensioni che richiedono tempi e procedure lunghe e puntare sulle opere minori e sulla manutenzione di quelle già realizzate per cancellare il rischio della corruzione.

Qualche bello spirito potrebbe definire la politica industriale indicata da Toninelli come l’espressione della scelta ideologica della decrescita felice. In realtà si tratta della sindrome paranoide del gruppo dirigente di un partito cresciuto con l’ossessione del cosiddetto Stato criminogeno, cioè dello Stato in cui il valore fondante non è la libertà, la democrazia e il lavoro ma la corruzione. Questa ossessione paranoica non produce solo decrescita infelice. Senza le grandi infrastrutture indispensabili per il Paese lo si condanna a un impoverimento progressivo fatto di disoccupazione e rabbia sociale. Ma rende impossibile anche il passaggio dalle grandi opere a quelle altrettanto indispensabili di ridotte dimensioni. Perché il germe della corruzione non dipende dalle dimensioni, ma dalla procedure. Che più sono complesse, contorte e sottoposte a infinite competenze, più trasformano la corruzione in un fattore inscindibile dall’attività di gestione e di governo.

Toninelli non lo sa, ma non sono i grandi appalti a provocare l’illegalità ma i codici a cui sono sottoposti gli appalti stessi a produrre gli sprechi e i fenomeni corruttivi. Intanto, però, perché non offre un esempio di piccole opere indispensabili per la sopravvivenza sollecitando il Comune di Roma e la sindaca Virginia Raggi a riempire le buche?