La continuità politica tra la Lega Nord di Umberto Bossi e la Lega nazionale di Matteo Salvini non può essere messa minimamente in discussione. Il partito dell’attuale vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno è figlio diretto del partito dell’ormai anziano “senatùr”. Magari, secondo Bossi, è un figlio degenere perché ha scavalcato i confini della Padania e si è espanso per l’intera penisola cavalcando i temi di un neo-nazionalismo in aperta antitesi con il secessionismo regionalista del passato. Ma, sempre in termini politici, figlio è e figlio rimane. Con un Dna inequivocabile e fin troppo definito. In termini giuridici, però, l’associazione non riconosciuta (tale è un partito per l’ordinamento giuridico italiano) è un soggetto sicuramente diverso dall’associazione non riconosciuta di Umberto Bossi. È probabile che questa diversità sia nata dalla necessità strumentale di realizzare una cesura tra il vecchio e il nuovo. La cesura, qualunque sia stata la sua motivazione, c’è però stata. E il soggetto giuridico della Lega salviniana è diverso da quello della Lega bossiana.
Questa diversità giustifica il sospetto leghista che la magistratura, dalla Procura di Genova alla Corte di Cassazione, abbia seguito la logica della continuità politica piuttosto che quella della cesura giuridica nel perseguire giudiziariamente il partito di Matteo Salvini. Può essere che il sospetto sia infondato. Ma in un Paese funestato da alcuni decenni di esondazione giudiziaria sul terreno istituzionale, non è affatto singolare che la prima reazione della Lega odierna sia stata quella della denuncia di un atto di giustizia politicizzata a danni del partito in crescita vertiginosa nel consenso popolare.
Nessuno, ovviamente, si aspetta che il Presidente della Repubblica chiamato in causa dai leghisti intervenga sulla scottante materia. Anche se in termini politici Sergio Mattarella è il garante della Costituzione democratica, le sue prerogative non gli consentono interventi diretti sugli atti specifici degli organi giudiziari. La questione di un partito che rischia di essere messo in condizione di non operare per mano della magistratura, però, rimane un problema politico di estrema importanza. Non solo perché ripropone il tema dominante del rapporto tra organi e poteri dello Stato, ma anche perché introduce un elemento di contrasti e di divisione all’interno dell’attuale coalizione governativa tra Lega e Movimento Cinque Stelle. Quest’ultima ha reagito all’incidente giudiziario della Lega applicando l’ipocrita regola secondo cui le sentenze si applicano e non si discutono solo quando sono ai danni del concorrenti e dei nemici. Nella speranza di prendere qualche vantaggio sui leghisti. Ma la mancata solidarietà su una questione così importante e delicata apre una crepa nell’alleanza che difficilmente potrà essere colmata. A conferma che anche sugli equilibri della cosiddetta Terza Repubblica grava il rischio di esondazione giudiziaria. Come nella Prima e nella Seconda.