La proposta di unire Cgil, Cisl e Uil in un sindacato unico lanciata da Maurizio Landini in occasione della festa del primo maggio non rappresenta alcuna novità. Al contrario, non solo ripropone un progetto antico che ha percorso l’intera storia della seconda metà del secolo scorso e che è costantemente naufragato a causa della vocazione egemonica della Cgil, ma costituisce la drammatica conferma della incapacità dei sindacati confederali di liberarsi degli schematismi statici del passato per affrontare in maniera nuova ed adeguata le sfide del presente e del futuro.
L’idea di un sindacato unico che cancella e marginalizza qualsiasi altra forma di organizzazione dei lavoratori è figlia della vetusta concezione dello Stato organico strutturato sul modello totalitario comunista. Quello fondato sul doppio pilastro del sindacato unico e del partito unico, cioè della risposta autoritaria elaborata nella prima metà del secolo scorso dai teorici dello Stato comunista (e fascista) alla sfida della difficile gestione della modernità. Quella concezione è miseramente fallita. Ma ha lasciato una eredità culturale che come un fiume carsico rispunta ogni volta che la sfida della modernità tumultuosa ed incontrollabile si ripresenta e provoca lunghe fasi di crisi. Landini è pervaso di questo tipo di cultura e si comporta di conseguenza, rispolverando non l’idea dello Stato organico comunista, che è stata cancellata dalla storia, ma almeno quello di un sindacato unico egemonizzato dalla Cgil che fronteggi la crisi in atto nel segno e con la strategia della conflittualità permanente.
Ma basta la conflittualità tradizionale nei confronti del cosiddetto padronato a fronteggiare gli effetti devastanti di una innovazione incontrollata dovuta ai fenomeni della rivoluzione tecnologica e della globalizzazione? La risposta è, ovviamente, negativa. Landini vuole combattere la guerra moderna con le concezioni e le armi delle guerre antiche perdendo di vista come nei periodi delle moderne crisi economiche l’interesse dei lavoratori a mantenere la propria occupazione finisce inevitabilmente col coincidere con quello dei datori di lavoro a salvare le proprie imprese.
La conflittualità va dunque bene nelle fasi di crescita, quando bisogna far conquistare ai lavoratori una parte dei profitti. Ma deve lasciare il posto alla collaborazione quando la posta in palio non sono i maggiori diritti o gli aumenti salariali, ma la conservazione dei posti di lavoro con la tenuta delle imprese. La ricetta di Landini, comunque, ha un pregio. È una forma di archeologia sindacale. E come tale appare destinata al museo e non alla realtà presente del mondo del lavoro.