L’aspetto più singolare della campagna elettorale è la differenza di comportamento tra la quasi generalità delle forze politiche e i media che invece di seguire l’andamento del dibattito pre-elettorale cercano di esserne i protagonisti più attivi e intransigenti. Non c’è un solo partito che stia forzando i toni lanciando polemiche e contestazioni personali troppo pesanti. Le forzature, quando ci sono, riguardano le promesse di misure salvifiche irrealizzabili. Ma le aggressioni personali che, sull’esempio delle campagne elettorali americane non erano mai mancate in passato nell’epoca del bipolarismo e dell’antiberlusconismo militante, sono praticamente assenti dalle campagne propagandistiche dei partiti.
Neppure la Lega o il Movimento Cinque Stelle, che degli attacchi feroci “ad personam” avevano fatto una sorta di tratto distintivo delle loro battaglie politiche, stanno forzando i toni delle loro polemiche. E lo stesso vale per le diverse componenti della sinistra sempre divise tra renziani e antirenziani, ma ben attente a mantenere lo scontro entro i limiti della correttezza. Come se ci fosse un tacito accordo generale per evitare fratture irrimediabili e per non compromettere la possibilità di dare vita a un qualche governo di larghissima coalizione nella prossima legislatura.
La prudenza di tutte le forze politiche, però, non trova riscontro sui principali media del Paese. Questi ultimi, al contrario, più cresce la vocazione governativa anche tra i partiti tradizionalmente all’opposizione, più danno fuoco alle polveri delle polemiche moltiplicando le aggressioni e i toni sopra le righe. Come se la loro preoccupazione principale fosse quella di rendere sempre più incandescente il clima politico generale e creare le condizioni non per la formazione di un qualche governo, ma per trasformare la prossima legislatura nel regno dell’instabilità e del caos.
Nessuno dubita che questo comportamento dei media dipenda essenzialmente da ragioni commerciali. Più si urla, più si colpisce l’attenzione dell’opinione pubblica, più si vendono copie o si alza l’ascolto aumentando le entrate pubblicitarie. Ma accanto a queste ragioni fin troppo spiegabili (e anche comprensibili) c’è una motivazione forse addirittura più forte di quelle commerciali. C’è la deriva qualunquista e nichilista di un mondo dell’informazione che ha perso il ruolo e i privilegi di un tempo e che reagisce al proprio declino promuovendo lo sconquasso generale.
Sarà per questo che i media tradizionali sono in crisi irreversibile?