La Lazio, la Uefa, l’antifascismo a orologeria, (vari)ie ed eventuali | Arturo Diaconale

15 Dicembre 2017
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Condivido da L'Opinione un’interessante analisi sul momento Lazio a firma di Stefano Cece e Pierpaolo Arzilla

Lassù dove non osano le aquile. La storia biancoceleste è costellata di episodi sfavorevoli, anche dal punto di vista squisitamente arbitrale. Senza scomodare immagini sbiadite di casi clamorosi che hanno fatto giurisprudenza in materia regolamentare, tipo l’arbitraggio del signor Rigato di Mestre in un Lazio-Napoli di serie B degli anni Sessanta (che ci costò la promozione), si possono fare degli esempi a campione per dimostrare senza timore di smentita che la Lazio nel corso degli anni ha subito dei trattamenti da parte delle “giacchette nere” quantomeno dubbi, se non clamorosi in alcuni casi per il danno arrecato a livello sportivo e/o di risultato. Si può citare Di Cola in un Lazio-Atalanta al Flaminio nella stagione ’89/90 passando per Menicucci (con tanto di ombrellate di Long John) in un Lazio-Udinese fino a Treossi di Forlì in quella maledetta domenica al “Franchi” del ’99. Il Collina “salvatore” di Perugia-Juventus che valse il secondo scudetto della storia laziale è lo stesso direttore di gara che l’anno precedente non fischiò un rigore solare per un fallo di mano di Iuliano all’Olimpico sempre contro i bianconeri. Si potrebbe continuare ad oltranza fino ad arrivare alla direzione di Giacomelli di lunedì sera, ma non è costume del laziale quello di lamentarsi sempre e comunque o di piangere sul latte versato. Non abbiamo un goal di Turone da rimpiangere a vita, né interrogazioni parlamentari da far partire in chiusura di legislatura. Certo è che la misura e colma, e il laziale chiede rispetto. Ma è una storia vecchia quanto il mondo, perché quando si è in alto dai fastidio a prescindere, e gli inciampi così come gli sgambetti sono dietro l’angolo.

Vogliamo provare a dare una chiave di lettura diversa rispetto agli ultimi accadimenti, una visione d’insieme che ci proietti fuori dai confini nazionali, per guardare “oltre”. Altrimenti il destino cinico e baro costringerà il popolo biancoceleste a parlarsi addosso vita natural durante, dovendosi chiedere se tutto questo parta dal fallo di mano di Zauri, dalla colpa da espiare per lo “spalmadebiti”, dal no di Bertarelli ad entrare nel calcio su “consiglio” dei poteri forti, dagli sceicchi che ci sono ma non si vedono, e via via in una caccia alle streghe custodita nelle leggende metropolitane che però finisce per relegare la Lazio in una sorta di classifica-Purgatorio che non si sa bene se debba finire nel 2024 con le tasse pagate, o se debba continuare in eterno.

La Lazio non andrà mai in Champions League. Ce lo chiede l’Europa. L’Uefa non ci vuole nel salotto buono: tifoseria (e squadra) non gradita. Squadra, società e sostenitori pagano una storia recente che è fatta non solo di oggettive intemperanze di stampo reazionario o presunto tale da parte di alcune frange del tifo di curva, ma anche di altrettante oggettive e strumentali disparità di trattamento della comunicazione nazionale e locale. E anche di scelte politiche europee palesi, perché la stessa Uefa ci ha fatto capire in tutti i modi (in materia quasi provocatoria) che un laziale di destra è più funzionale a una certa causa, piuttosto, per esempio, che i tifosi del Feyenoord, che lanciano banane ai giocatori di colore e sono quasi naturalmente destinati all’oblio. Anzi, l’Olanda è addirittura insignita del premio Fair Play Uefa nel 2015. Più chiaro di così.

Succede poi che navigando su YouTube ci si imbatta in un filmato d’epoca: Bayern Monaco-Roma, gara d’andata dei quarti di finale di Coppa delle Coppe. Al minuto 1.12 compare una simpatica croce celtica nella tribuna riservata ai tifosi giallorossi esposta senza problemi per tutta la partita. Ma era il 1985. L’Unione europea in quanto tale era ancora lontana, ed evidentemente in tempi (finali) di Guerra fredda, un simbolo caro all’estrema destra poteva essere tranquillamente esposto per 90 minuti nello stadio di una Germania (Ovest) prossima all’unificazione, senza fare scandalo. Si dirà a posteriori che proprio quelle negligenze, a livello nazionale e internazionale, hanno poi “favorito” l’espansione di un fenomeno che in meno di 10 anni, in certe enclave ultras, è diventato fuori controllo. Poi si è aperto gli occhi, o sono stati fatti aprire. E allora anche se la matrice di un certo estremismo è rimasta, certi simboli sono scomparsi da alcune curve (che si sono rifatte una verginità o sono state messe sotto tutela), mentre in altre no, o magari si è pensato di “tollerarle” o “monitorarle” per poi “utilizzarle” al momento giusto.

La Lazio non può andare in Champions League, dicevamo. Al netto dell’ipotesi, pur non peregrina, che una banca e una proprietà americana possano avere un peso politico e finanziario non indifferente rispetto ad altri assetti societari, sono ormai troppi gli indizi che ci fanno ritenere che le ragioni del “No” arrivino direttamente da Nyon, piuttosto che da via Allegri, che al massimo, insieme all’Aia, potrebbe essere considerato il “braccio armato” del governo del calcio europeo. E purtroppo, se così fosse, sarebbe anche legittimo. Non c’è scandalo, in questo senso. Non c’è complotto. Lo scandalo (o forse no), semmai, è che i tifosi del Feyenoord godano di una sostanziale impunità. Due pesi e due misure? Scelta politica, appunto, dettata ovviamente dai rapporti di forza, nell’Ue come nell’Uefa. E allora può essere una scelta politica anche sbattere sistematicamente in prima pagina una tifoseria biancoceleste, ormai marchiata come “Fascist!”, e che è da tempo nel mirino dell’Uefa. E purtroppo i molteplici e non sempre edificanti episodi di questi anni, tuttavia straordinariamente ingigantiti da una certa grancassa mediatica che ha interesse ad accendere i riflettori sempre sullo stesso obiettivo e ad ignorarne sistematicamente altri, attribuibili al settore del tifo organizzato (o a una sua parte) non hanno fatto altro che rafforzare la convinzione che “i tifosi della Lazio sono tutti fascisti”, e che forse lo è anche un po’ la squadra (e anche qui, i saluti romani di alcuni giocatori non sono certamente serviti per sgretolare i pregiudizi).

Insomma, per certi versi ce la siamo anche un po’ cercata. L’Europa del calcio non vuole la Lazio in Champions League. Può ancora essere gestibile in Europa League, ma anche in quella dimensione non sono mancati gli avvertimenti chiari e soprattutto brutali. Non abbiamo dimenticato, e non dimenticheremo mai quello che successe a Varsavia nel novembre del 2013, di come furono trattati i tifosi laziali. Un messaggio talmente chiaro: non vi vogliamo. E se proprio la squadra riesce ad andare avanti per meriti (senza contare le partite a porte chiuse), comunque troppo lontano non potrà andare: al massimo un quarto di finale (ricordate l’arbitraggio di Fenerbache-Lazio? Stesso spartito: non vi vogliamo). Ovviamente le prove di tutto questo non le abbiamo e non le avremo mai. Ma non crediamo che ci siano documenti segreti Uefa che affermino chiaramente che la Società Sportiva Lazio non è gradita in Champions League. Non servono. Basta una chiacchierata in giardino o guardare semplicemente le campagne mediatiche “No Racism” per capire come funziona. E mica diciamo che funziona male. Poi però, ad annusare un po’ l’aria nell’ultimo anno mezzo, ci si accorge pure che un certo antifascismo un po’ troppo militante non proprio cristallino, non solo può diventare uno strumento fondamentale, a livello generale, per educare il popolo ad adattarsi acriticamente al mutamento e poi al consolidamento di una certa idea dominante di società e di economia, ma anche, diventare il pretesto più efficace (e francamente un po’ vergognoso) per regolare i conti all’interno di universi particolari, come il governo del calcio nazionale, in cui si è aperta l’ennesima lotta di potere. E se il popolo è da educare, lo è soprattutto, perché, guarda caso, proprio in questo ultimo anno e mezzo sembra aver clamorosamente deviato dalle direttive dei Padroni del Discorso: sceglie Trump e non Clinton, vota la Brexit, manda il Front National al ballottaggio per l’Eliseo, premia la destra in Austria, fa vincere Syriza in Grecia, Viktor Orbán in Ungheria o il plurimiliardario (o “populista imprenditoriale”, come è stato definito) Andrej Babiš in Repubblica Ceca.

Un popolo che, insomma, “disobbedisce”. E in questo delicatissimo gioco di ruolo, anche le vicende della piccola Lazio possono essere pretestuose, e non solo in un Paese come il nostro, che si prepara alle elezioni politiche e nel quale, guarda caso, nelle ultime settimane sono aumentate le apparizioni di diavoli e diavoletti in camicia nera o ci si accorge dopo anni che esistono fotomontaggi adesivi di Anna Frank con le magliette di alcune – non tutte – squadre di calcio di serie A. E su cui vengono accesi i riflettori al momento giusto. Colpirne uno, ma sempre lo stesso, per educarne cento. E allora anche l’antifascismo, come sacrosanto e costituzionalissimo ripudio di ogni forma di violenza e intolleranza, può diventare, come rilevato dal comunistissimo filosofo sloveno, Slavoj Zizek, in una recente intervista al quotidiano “La Verità”, “l’oppio dei popoli”. Che, come tale, serve alla classe dirigente per nascondere i propri fallimenti e ricompattare l’opinione pubblica attorno al feticcio della paura.