Più che al governo pensare alla elezioni | Arturo Diaconale

7 Maggio 2018
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L’unico dato politico certo dopo due mesi di crisi è che la legislatura sarà comunque breve. Forse addirittura brevissima visto che si potrebbe votare non solo nel prossimo ottobre ma, nella migliore delle ipotesi, nella prossima primavera o anche nel bel mezzo dell’estate, cioè a luglio.

In questa prospettiva per i leader dei partiti dovrebbe diventare secondario il problema del governo incaricato di gestire la nuova verifica elettorale. Che nasca da una alleanza temporanea e innaturale tra Cinque Stelle e Lega o sia un governo del presidente fondato sulle astensioni è del tutto marginale. O meglio, diventa funzionale solo nella prospettiva della nuova campagna elettorale. Un governo politico ma a tempo darebbe un indirizzo preciso a grillini e leghisti obbligandoli a preparare una competizione a due nella prospettiva di dare vita a un nuovo bipolarismo tra forze percepite come estreme. Viceversa, un governo di scopo del presidente lascerebbe più margine di manovra e di collocazione a tutte le forze politiche liberandole dalla preoccupazione immediata di scegliere oggi la strategia elettorale del prossimo futuro.

La considerazione vale per tutti i partiti con la sola eccezione del Movimento Cinque Stelle. Che dopo aver reso impossibile la nascita di qualsiasi maggioranza di lungo respiro con le sue richieste e i suoi veti non ha altra strategia che quella di chiedere agli italiani un consenso più ampio del 32,5 per cento per metterlo in condizione di realizzare il cosiddetto governo del cambiamento e dare vita a una Terza Repubblica fondata sul predominio di un solo partito.

Diverso è il caso degli altri partiti. In primo luogo della Lega che deve scegliere se puntare da sola a diventare la forza egemone del centrodestra italiano o diventare la forza trainante di uno schieramento ampio magari organizzato sotto forma di partito unico o di federazione.

La scelta della Lega non è facile. Perché i successi alle politiche e alle amministrative la spingerebbero verso l’avventura solitaria che la potrebbe portare a fagocitare parzialmente sia Forza Italia che Fratelli d’Italia e diventare un partito almeno del 25 o del 30 per cento. Ma l’esempio del lepenismo francese insegna che questa strada può condurre non solo all’isolamento ma, soprattutto, favorire un’aggregazione di quell’area moderata che al momento sembra minoritaria ma che potrebbe sempre rispuntare come un fiume carsico in nome della stabilità senza avventure e forzature.

Non c’è solo l’esempio francese che dovrebbe spingere alla prudenza Matteo Salvini. I numeri dicono che il centrodestra ha conquistato il 37,5 per cento. Bastano due punti e mezzo per quel 40 per cento con cui sarebbe automatico formare un governo. Perché, allora, non puntare sul certo piuttosto che sull’incerto e favorire la nascita di una federazione allargata presentandola come l’unica forza politica in grado di assicurare una guida stabile e sicura per il Paese?