La politica della punizione ha il difetto che presto o tardi arriva sempre chi punisce il punitore. I dirigenti del Movimento Cinque Stelle, convinti che il voto del 4 maggio ha conferito loro il mandato di far scontare pene salate a chiunque abbia avuto responsabilità nel passato e possa averne nel futuro fuori del loro ristretto ambito, hanno elaborato un lungo elenco di soggetti da sottoporre a severa punizione. In questo elenco ci sono le banche, gli editori impuri, ovviamente Silvio Berlusconi, i burocrati della Prima e della Seconda Repubblica, gli ex parlamentari delle antiche legislature provviste di vitalizi, i concessionari, gli imprenditori-prenditori e, dopo la tragedia di Genova, la Società Autostrade e tutti quelli che nutrono dubbi sul fatto che lo Stato si metta a costruire ponti e viadotti dopo che per alcuni decenni ha smesso di farlo perdendone le competenze e le capacità.
Questa politica della punizione è figlia dell’idea balzana secondo cui il 32 per cento conquistato dai grillini alle ultime elezioni sia stato una sorta di presa della Bastiglia o del Palazzo d’Inverno ed abbia segnato non solo l’avvento al potere dei pentastellati ma l’avvio di un processo rivoluzionario destinato a rivoltare l’Italia come il famoso calzino di Piercamillo Davigo.
Naturalmente la fase politica in cui ci troviamo non è affatto rivoluzionaria. La Consob non è la Bastiglia, la Rai non è il Palazzo d’Inverno e tutte le categorie da punire non solo i kulaki che si opponevano al colcos staliniani. Se c’è un precedente a cui fare riferimento quello è l’avvento del renzismo all’indomani del voto europeo che dette al Partito Democratico il 40 per cento e convinse il suo segretario che il momento rivoluzionario della rottamazione punitiva nei confronti dei propri avversari era arrivato.
È vero che la storia non si ripete e che Luigi Di Maio non è Matteo Renzi. Ma dopo una fase giacobina c’è sempre una fase girondina. E chi ha più punito subisce sempre e comunque la stessa sorte!