La cultura che ha prodotto l’elaborazione del reato di femminicidio, cioè di un omicidio rafforzato ed aggravato dal fatto che la vittima è una donna, produce automaticamente la richiesta della pena esemplare da parte della pubblica opinione.
Chi si stupisce e si indigna per le tre recenti sentenze che hanno comminato pene segnate dal riconoscimento di circostanze attenuanti per gli autori di femminicidi è inconsapevolmente imbevuto di questa cultura diventata egemone nella società italiana. Una cultura che è nata dall’esigenza di tutelare e garantire le minoranze in passato conculcate, discriminate e non riconosciute. Ma che si è progressivamente evoluta perdendo il suo carattere originario di strumento di garanzia per categorie sociali meno protette ed assumendo, quasi in reazione alle discriminazioni del passato, forme di prevaricazione sempre più estreme nei confronti di chi non crede che la giustizia debba essere sempre e comunque sbilanciata nei confronti delle minoranze più agguerrite.
Questo tipo di cultura, che può essere definita quella del giustizialismo delle minoranze più forti, è alimentata da un’informazione sempre più portata alla semplificazione scandalistica. Quella che gonfia sempre e comunque le ragioni della pubblica accusa per avere la possibilità di sbattere il mostro in prima pagina ed ignora sistematicamente il caso giudiziario quando il mostro viene riconosciuto innocente al termine del processo. E che si stupisce e si scandalizza, come è avvenuto nei tre casi più recenti, quando al reato di femminicidio non corrisponde la pena esemplare adeguata all’omicidio potenziato ed aggravato dalla natura femminile della vittima.
Chi si è sempre battuto contro la giustizia ispirata al furore popolare alimentato dai media colpevolisti per convinzioni errate e banali interessi commerciali, deve oggi riconoscere che l’unico baluardo contro le sentenze esemplari e la giustizia semplificata della legge del taglione è rappresentato dal lavoro dei giudici togati. Di quelli che hanno il coraggio di applicare la legge senza tenere conto delle pressioni delle minoranze prevaricatrici sostenute da una informazione tanto semplificatrice quanto irresponsabile.
A questi giudici coraggiosi (giudici che nei tre casi in oggetto sono donne) deve andare il plauso e la riconoscenza di chi crede nella giustizia giusta e non vendicativa. Lo stato di diritto è nelle loro mani!