È diventato un caso emblematico quello del consigliere di Stato, Francesco Bellomo. Emblematico di che? Semplice. Non della cultura giustizialista e illiberale che ormai domina incontrastata in alcuni media nazionali. Ma del passaggio da questa cultura a una forma di paranoia politicamente corretta che dal semplice illiberalismo e manettarismo passa all’applicazione di quella persecuzione psicotica che è tipica dei regimi totalitari di ogni forma e colore.
Nessuno sa bene di cosa sia accusato il magistrato amministrativo Francesco Bellomo. Neppure lui conosce il capo d’accusa che lo ha portato, pare dietro la denuncia di una ex allieva di un corso da lui diretto per aspiranti magistrati, a un giudizio in corso di fronte al Consiglio di Stato. Eppure, malgrado l’indeterminatezza del capo d’accusa, Bellomo si trova alla sbarra mediatica paragonato a un magistrato milanese corrotto, a un altro magistrato romano accusato di prostituzione minorile, a un consigliere d’appello colto a compiere atti innominabili su un ragazzino.
La ragione di tanta indignazione, a scavare tra i tumuli di fango che lo seppelliscono sulla gogna mediatica, sembra essere il dress code (che altro non è che un codice di comportamento) che impone nell’istituto privato in cui dirige una “Scuola di formazione giuridica avanzata specializzata nella preparazione al concorso in magistratura ordinaria”. Questo codice prevede l’adozione (ovviamente volontaria) di una serie di comportamenti (gesti, conversazioni, movimenti) “onde assicurare il più possibile l’armonia, l’eleganza, la superiore trasgressività”. E tra questi comportamenti sono previste per le donne alcune indicazioni sull’abbigliamento che consigliano le minigonne e i tacchi a spillo.
Non si capisce bene quale possa essere il reato nascosto in questo dress code (nel politicamente corretto di stampo paranoico l’uso dell’inglese è obbligatorio). Ma anche se il reato non viene indicato il povero Bellomo, per via della faccenda delle minigonne e della ammissione di aver avuto delle storie consenzienti con alcune allieve, viene non solo paragonato a colpevoli di gravissimi misfatti ma viene bollato con epiteti come “galletto”, “sciupafemmine”, “capitan Sputasentenze in toga”. E di fatto viene condannato all’espulsione dal Consiglio di Stato dai giornalisti autonominatisi, per l’occasione giudici monocratici dedicati ad applicare l’intolleranza paranoica politicamente corretta. Ora può essere che Bellomo sia antipatico per l’eccessiva considerazione che ha di se stesso. Ma basta l’antipatia per giustificare il linciaggio mediatico? E che differenza passa tra chi opera linciaggi del genere e i giudici dei processi nazisti o stalinisti degli anni Trenta e Quaranta?