Matteo Renzi è un abilissimo comunicatore privo di principi. Non crede in nulla al di fuori di se stesso. Per questo passa indifferentemente dallo “stai sereno” alla pugnalata, dal Patto del Nazareno al recupero dell’unità del Partito Democratico sul Quirinale, dall’elemosina degli ottanta euro alla rapina delle nuove tasse, dalla conversione a Marchionne con lo Jobs act al tentativo di far fare a Sel la stessa fine di Scelta Civica. Questa assenza di principi gli consente ogni genere di contorsioni ed esalta sempre di più una consapevolezza di sé fatalmente portata a trasformarsi in culto della propria personalità. Il ché non sarebbe un problema visto che l’egocentrismo è una sorta di obbligo per un politico di successo. Ma diventa un pericoloso segnale se si considera che a questo culto della personalità si aggiunge un disegno di sistemazione istituzionale che non è diretto solo a dare maggior potere all’Esecutivo rispetto al Parlamento, ma è chiaramente rivolto a stabilizzare e normalizzare un regime dai tratti fin troppo autoritari ed illiberali.
Le riforme istituzionali, con il depotenziamento di un Senato trasformato nella Camera dei sindaci e dei consiglieri regionali del Pd e con un Parlamento dove alle opposizioni rimarrà solo il compito di fare tappezzeria alla maggioranza blindata del capo, costituiscono i pilastri del renzismo futuro ed immutabile. E non basta. Perché per dare maggiore stabilità al regime si aggiunge un progetto complessivo di riordino della società nazionale fondato sulla realizzazione – attraverso una riforma della giustizia ispirata ad un giustizialismo repressivo teso ad estendere all’intero Paese l’emergenza antimafia – di un vero e proprio stato di polizia. Se un solo anno di governo ha suscitato queste impressioni, non sarà il caso di incominciare a mettere in guardia gli italiani del rischio del Perón alla fiorentina?