Non solo attraverso una azione di razionalizzazione del prodotto informativo rappresentato dalle edizioni dei vari Tg e da una serie di accorpamenti e riduzione di edizioni. Ma, soprattutto, attraverso la “deromanizzazione” dell’azienda (sulla base della convinzione che l’Italia non può essere raccontata solo dalla prospettiva della Capitale), attraverso il passaggio dal pluralismo verticale a quello orizzontale ed attraverso una riforma profonda delle sedi regionali e la creazione del redattore territoriale multimediale. I punti nodali del piano, quindi, sono lo spostamento a Milano del Tg2 sulla base dell’assunto che l’Italia è diventata più policentrica e che “la città di maggior peso (non solo economico) più al passo con le grandi città europee, oggi è Milano e non più Roma”; la realizzazione di un Tg Sud negli studi di Napoli e la creazione di una “Newsroom Italia” nata dalla fusione tra Rainews24 e Tgr che realizzi anche un canale Rai Italy in lingua inglese; l’istituzione del redattore territoriale multimediale stanziato singolarmente nelle città una volta sede di provincia.
Osservazioni
Il cambiamento e l’innovazione della Rai sono indispensabili. Tanto più che il probabile futuro dell’azienda radiotelevisiva pubblica non è più quello della competizione rassicurante in un sistema sostanzialmente domestico e duopolistico ma quello di uno scontro continuo con aziende multimediali dalle dimensioni internazionali. Cambiare ed innovare, però, hanno un valore positivo solo se rispondono ad una ispirazione ed una intuizione dirette a conseguire obiettivi positivi. E, ovviamente, solo se si realizzano con strumenti appropriati rivolti nella direzione giusta.
Nel caso del piano editoriale di Carlo Verdelli, con tutto il rispetto per il lavoro di un professionista dalle qualità indiscusse, sono però costretto a rilevare come il progetto sia fondato su una ispirazione ed una intuizione profondamente sbagliate e come gli strumenti applicativi previsti siano conseguentemente errati ed improponibili.
La mia critica è in primo luogo di natura culturale. L’Italia policentrica non è una novità recente. La policentricità italiana risale all’epoca dei comuni e si esalta e produce risultati eccezionali nella lunga fase del Rinascimento. Il fenomeno è talmente forte e radicato nella storia della penisola che all’atto della formazione dello Stato unitario, così come raccomandato in uno degli ultimi discorsi di Camillo Cavour, la scelta di Roma Capitale diventa l’unico antidoto contro l’esplosione dei campanilismi e delle rivendicazioni delle cento città italiane dalle peculiarità irripetibili.
La “deromanizzazione” della Rai nasce, quindi, da un presupposto culturale profondamente sbagliato. Milano continua ad essere la capitale economica (ma non più morale) del Paese, ma il modello culturale di cui si è fatta portatrice dagli anni Novanta in poi non è più quello delle grandi famiglie industriali artefici del miracolo economico, ma quello dei ristretti circoli milanesi politicamente corretti che imitano in chiave inguaribilmente provinciale le caste elitarie espressione del pensiero unico liberal di New York e San Francisco.
La “milanesizzazione” della Rai (operazione peraltro già avviata nell’ultimo anno) avrebbe come unico effetto quello di consegnare l’azienda radiotelevisiva pubblica ai ristretti salotti di provincia dove la cultura dominante è quella del consumismo trasgressivo dei privilegiati con effetti devastanti sulla capacità di rappresentazione del Paese da parte del servizio pubblico.
L’idea di trasferire il Tg2 a Milano, oltre che a prevedere costi economici e giudiziari (i contenziosi) esorbitanti, rappresenta un errore di fondo che rende improponibile l’intero piano editoriale. Milano invece può diventare la sede di un’area informativa economica e finanziaria oggi mancante e di cui potrebbero usufruire tutti i Tg.
A questo errore si aggiunge quello della creazione della “Newsroom Italia” formata dall’accorpamento tra Rainews24 e Tgr e dalla ristrutturazione dell’intero sistema dell’informazione locale attraverso la formazione delle cinque aree e quella della figura del redattore residente dotato di telecamerina e dislocato nella gran parte delle vecchie province.
La divisione del territorio italiano in cinque aree viene ipotizzata sulla base di un criterio incomprensibile. Perché la Sardegna con il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta? Per una inconfessata nostalgia verso l’antico Regno di Sardegna? E perché la Puglia insieme al Lazio, il Molise e l’Abruzzo? In nome della transumanza che nei secoli passati legava queste diverse regioni? E perché mai a Milano, oltre al Tg2 trasferito in nome della superiorità della città ambrosiana, dovrebbe ospitare anche la sede dall’Area Nord-Est quando sarebbe più opportuno prevedere questa sede in una città del Veneto?
Quanto poi alla formazione del redattore residente dotato di telecamerina ed in grado di riprendere, montare e trasmettere in piena autonomia appare fin troppo evidente come questa figura sia la ripetizione tecnologicamente avanzata del corrispondente provinciale dei giornali di carta stampata del secolo scorso. Nei giornali cartacei questa figura è stata quasi del tutto cancellata per i costi esorbitanti e per la sua sostanziale inutilità. Riprodurla oggi in Rai può essere un tuffo nel passato in nome della nostalgia per il bel tempo andato, ma non costituisce in alcun caso quella innovazione radicale che vorrebbe essere.
Lo stesso giudizio negativo va rivolto alla proposta del canale in inglese, giusta in sé ma del tutto inaccettabile se non viene precisato quali dovrebbero essere i contenuti di questo canale (forse la traduzione in inglese di una rete tradizionale?), come dovrebbe essere trasmessa, quale dovrebbe essere il bacino d’utenza e, naturalmente, i costi dell’operazione. Ancor più negativo, infine, è il giudizio sul cosiddetto pluralismo orizzontale che dovrebbe sostituire quello verticale.
Che significa infatti pluralismo orizzontale? Forse che la lottizzazione non dovrebbe più avvenire tra Tg e Reti, ma all’interno di ciascun Tg e ciascuna Rete? La domanda è retorica visto che non è neppure pensabile far rientrare dalla finestra la tripartizione dell’azienda pubblica cacciata a parole dalla porta. Ma il quesito rimane aperto. Perché il Piano Verdelli non lo chiarisce. E, al contrario, lascia aperta la strada alla preoccupazione che per i sostenitori della cultura politicamente corretta, cioè per chi ha assunto la governance dell’azienda, la cacciata della politica lottizzata sia solo una formula ipocrita per assicurare il trionfo su tutte le reti e su tutti i telegiornali della politica ottusamente e conformisticamente omologata. Quella che nel giro di un anno è riuscita nel capolavoro di trasformare i Tg in copie conformi l’uno dell’altro redendoli, almeno per il Tg2 ed il Tg3 imitatori passivi del Tg1, privi di qualsiasi capacità di suscitare alcun tipo di interesse in un pubblico che apprezza e pretende la rappresentazione delle differenze.
Sul resto del Piano è sostanzialmente inutile dilungarsi. Alcuni accorpamenti sono sicuramente necessari, così come è indispensabile che una direzione editoriale svolga un’azione continua di coordinamento dell’attività giornalistica soprattutto nei momenti di particolare emergenza. Un’ultima osservazione critica va però rivolta alla totale carenza di analisi relativa a Rai Sport, definita una delle “offerte fondamentali del servizio pubblico” ma in cui l’unico progetto di cambiamento esistente consiste nella speranza che l’attuale nuovo direttore possa avviare un nuovo corso per nulla precisato.
Non una parola sull’accorpamento delle attuali due reti e, soprattutto, sul rapporto da stabilire tra Rai Sport, Tg, giornali radio e reti. Come se lo sport in Rai non sia stato uno dei fattori che più hanno contribuito a dare un’identità forte e precisa al servizio pubblico e come se questa funzione dovesse essere considerata in via di totale esaurimento.
Proposte alternative
L’attuale consiliatura della Rai è caratterizzata dalla marginalizzazione dei consiglieri di amministrazione avallata dai componenti del Cda espressi dai partiti di governo per ragioni di disciplina e di solidarietà politica, voluta dal direttore generale nella convinzione che una volta divenuto amministratore delegato sulla base della legge di riforma non avrebbe avuto ostacoli alla sua gestione e condivisa anche dalla presidente nell’obiettivo di potere realizzare, con i consiglieri depotenziati, una sorta di diarchia con il Dg nell’azienda radiotelevisiva pubblica. A dispetto di questa caratteristica, che tende a vanificare l’azione dei consiglieri benché il Codice civile attribuisca loro responsabilità pesanti, non ho alcuna esitazione nell’avanzare alcune proposte alternative al Piano editoriale. Perché non intendo in alcun modo accettare il ruolo di consigliere-dimezzato a cui compete al massimo il compito di mettere a verbale della riunione del Cda il proprio dissenso.
Prima proposta
La Rai non si deve “deromanizzare”, progetto provinciale, ma deve procedere sulla strada della trasformazione in media company rinforzando il suo ruolo di perno del sistema informativo nazionale in collaborazione con i privati nazionali e locali. Questa collaborazione, che si può realizzare a livello economico e produttivo, potrebbe risultare la vera innovazione rispetto al passato e trasformarsi in una scelta obbligatoria per impedire che il servizio pubblico venga travolto dalla competizione internazionale e rendersi corresponsabile di una totale colonizzazione del Paese da parte delle grandi media company sovranazionali. Se l’obiettivo diventa quello di impedire una colonizzazione destinata a schiacciare e cancellare una identità nazionale fatta di storia e di cultura di incomparabile importanza, il passo obbligato diventa l’intesa tra la Rai, asse portante del sistema Italia, con le emittenti commerciali nazionali e con quelle locali.
Per realizzare l’intesa con gli attuali concorrenti commerciali nazionali non c’è bisogno di stipulare accordi e protocolli. Basta procedere alla rinuncia da parte della Rai della propria quota di raccolta pubblicitaria (indicazione più volte manifestata da autorevoli rappresentanti del Governo), che verrebbe così lasciata alla logica del mercato interno da cui l’azienda pubblica sarebbe finalmente liberata. Per coprire il mancato introito basterebbe assicurare alla Rai un introito adeguato ed assolutamente certo attraverso il ritorno del costo del canone al livello preesistente, ritorno che sarebbe facilmente accettato dai cittadini di fronte ad una intesa politica sulla difesa dai rischi di colonizzazione e che lascerebbe lo spazio economico e finanziario per le emittenti di livello locale.
Le attuale sedi regionali Rai, infatti, potrebbero diventare centri di produzione e di coordinamento di emittenti regionali e provinciali scelte attraverso bandi e destinate ad arricchire l’informazione locale dell’azienda pubblica. La produzione locale, realizzata della Rai e dai privati, potrebbe andare a costituire l’ossatura caratterizzante di una nuova rete digitare terrestre, la sesta del servizio pubblico.
A questo proposito ricordo che la Rai partecipa attualmente a San Marino Rtv, emittente della Repubblica attualmente con un bacino d’utenza limitato ma che potrebbe essere allargato senza problemi di sorta al circuito nazionale. Una Rai trasformata nell’asse portante del sistema informativo nazionale potrebbe meglio promuovere accordi ed intese con gli altri servizi pubblici europei allo scopo di competere anche a livello internazionale con le grandi multinazionali dell’informazione e dell’intrattenimento.
Il pluralismo dei personaggi
Se il pluralismo verticale è superato e quello orizzontale inesistente rimane il problema di come assicurare il pluralismo richiesto dalle leggi ed unica giustificazione reale all’esistenza di un servizio pubblico.
Posto che il ritorno alla vecchia lottizzazione è improponibile e che una nuova è irrealizzabile anche perché nel frattempo i partiti che prima lottizzavano in maniera ferrea sono in gran parte scomparsi, rimane il problema di come un servizio pubblico riesca a rappresentare compiutamente una società in cui le diversità culturali continuano ad esistere a dispetto di chi vorrebbe dare per assodato il trionfo del pensiero unico politicamente corretto. Chi nutre questa idea ha applicato nel corso dell’attuale gestione il metodo della lottizzazione lobbystica, cioè della distribuzione degli incarichi e dei ruoli non in nome delle diversità politiche e culturali ma delle amicizie da salotto e, soprattutto, sulla base delle indicazioni delle grandi agenzie che gestiscono la stragrande maggioranza dei personaggi televisivi. Ma questo metodo rinsalda le amicizie personali ed i conti dei grandi agenti ma non garantisce alcuna forma di pluralismo.
Per cui, dando per scontato che gli orientamenti tradizionali dei tre Tg non possono essere modificati se non si vuole perdere ascolto (il Tg1 governativo, il Tg2 laico, il Tg3 attento ai fermenti di dissenso), è all’interno delle reti che si può e si deve assicurare il pluralismo delle idee attraverso la scelta di affidare programmi a personaggi televisivi non di tessera di partito ma di chiaro indirizzo culturale. Si tratta, in sostanza, di predisporre una sorta di personalizzazione dell’informazione puntando sulla formazione e sulla crescita di personaggi televisivi di diverso orientamento culturale in grado di offrire al pubblico un ventaglio il più ampio e ricco possibile di opinioni, stimoli, suggestioni.
È inutile sottolineare come da sempre la televisione di successo sia quella personalizzata. La Rai lo ha dimostrato producendo personaggi che dagli anni Cinquanta ad oggi sono entrati nella memoria collettiva del Paese. Ma i personaggi vanno scoperti, selezionati, preparati e fatti progressivamente crescere. Ed un compito di questo genere dovrebbe essere ricoperto da una direzione editoriale attenta alle esigenze di trovare gli interpreti migliori per portare sugli schermi televisivi e nella radio le voci e gli umori del Paese.
Conclusioni
Ho deciso di scrivere questo appunto per contribuire ad una discussione che non può essere liquidata in poche riunioni formali del Consiglio di Amministrazione. Le idee di fondo del mio contributo sono la trasformazione della Rai nel perno del sistema informativo nazionale in un quadro di collaborazione con l’emittenza privata nazionale e quella locale contro il rischio di colonizzazione informativa del Paese, la rinuncia alla raccolta pubblicitaria, l’uso delle emittenti private provinciali e regionali per l’informazione locale, la trasformazione di San Marino Rtv nella sesta rete nazionale della Rai, il potenziamento del settore dello Sport, il pluralismo da realizzare attraverso la personalizzazione dei programmi.
In una azienda normale, come previsto dal Codice civile, per approfondire la questione complessiva del piano editoriale, si costituirebbero comitati dentro il Cda per esaminare le questioni più rilevanti. L’amministratore delegato potrebbe affidare deleghe precise ai singoli consiglieri.
Ma la Rai è un’azienda normale?