“Luigi Di Maio è vivo e lotta contro il sistema!”. Il vicepresidente del Consiglio e “capo politico” del Movimento Cinque Stelle ha riesumato un vecchio slogan della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta per comunicare di non aver subito alcuna conseguenza dalle sconfitte elettorali nelle elezioni regionali abruzzesi e sarde e di essere più combattivo di prima sul fronte della battaglia antisistema.
C’è da sperare che l’esponente grillino abbia voluto caricare di autoironia la citazione di uno dei rituali più in voga durante gli anni immediatamente successivi al ’68. Perché quello slogan veniva usato dai militanti dell’ultrasinistra di allora per celebrare, nel corso dei cortei, i compagni che avevano perso la vita negli scontri con i nemici fascisti. Serviva, in sostanza, per celebrare i morti e ribadire che la rivoluzione sarebbe andata avanti comunque in nome del caduto.
Ma Di Maio è vivo e vegeto. E, dovendo per carità di patria escludere che lui o chi lo possa aver consigliato a pronunciare il vecchio slogan non conosca il significato del rituale, c’è da chiedersi perché mai abbia avvertito il bisogno di proclamare ai quattro venti la propria sopravvivenza. Forse per smentire chi, dentro e fuori il movimento grillino, lo considera politicamente defunto nella previsione che dopo aver perso in Abruzzo e Sardegna perderà anche in Basilicata e Piemonte e, soprattutto, nelle elezioni europee di maggio?
Il sospetto che più dell’ignoranza possa aver agito la paura di essere considerato fuori gioco prima del tempo è forte. In un partito dove non esiste una dialettica democratica e vige il principio che il capo politico ha sempre ragione, le vittorie sono automaticamente ascrivibili al leader (come il 42 per cento nelle elezioni politiche) ma le sconfitte sono ancora di più destinate ad essere scaricate sulle sole spalle del massimo rappresentante del partito.
Di Maio, che ha registrato come la solidarietà nei suoi confronti da parte di tutti gli uomini di punta del M5S sia stata quasi inesistente, si sente così politicamente defunto da avvertire l’inderogabile necessità di ricordare ai suoi stessi fratelli-coltelli di essere vivo e lottare insieme a loro.
“Il cavaliere, che non se ne era accorto – scrisse a suo tempo Francesco Berni nell’Orlando innamorato – andava combattendo ed era morto”.