Zingaretti ed il ritorno al fronte popolare | Arturo Diaconale

4 Marzo 2019
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Senza aver mai compiuto una vera autocritica per le sconfitte passate e più recenti e senza aver modificato o rigenerato il vecchio gruppo dirigente, il Partito Democratico si ritrova, quasi d’incanto, con un nuovo segretario provvisto di grande investitura popolare e di una nuova linea politica imposta da una forte spinta della base a sua volta plasmata dalle sollecitazioni e dalle indicazioni dei grandi media del Paese.

Il segretario è Nicola Zingaretti, che ha sbaragliato i suoi avversari ufficiali con un risultato che lo mette in condizione di contrastare efficacemente i suoi avversari ufficiosi. La linea politica è quella indicata dalla manifestazione milanese che ha sancito come l’indicazione di marcia del Pd zingarettiano debba essere quella ispirata dai media e dagli intellettuali di riferimento decisi a far ripetere alla sinistra lo stesso schema politico dell’infinito secondo dopoguerra italiano. Lo schema secondo cui per unificare il fronte progressista non bisogna far altro che sostituire alla vecchia lotta al neofascismo la nuova lotta contro il neorazzismo. Ed identificare nel moderno “uomo nero” da battere il leader della Lega Matteo Salvini al posto dei passati nemici Bettino Craxi e Silvio Berlusconi.

Non si deve ironizzare sulla fortuna capitata a Nicola Zingaretti di aver ottenuto in un colpo solo una forte legittimazione a leader del fronte progressista ed una linea politica che la base apprezza perché ampiamente sperimentata dalle generazioni precedenti. Il dato oggettivo è che prima delle primarie il Pd non aveva un capo e non aveva una linea politica, mentre oggi ha un leader al quale i media maggiori e la base della sinistra hanno affidato il compito di combattere la destra criminalizzandola per il suo presunto razzismo cercando alleanze e consensi nella parte più radicale del Movimento Cinque Stelle.

Forse ci sarebbe da chiedersi se Zingaretti, che da buon funzionario di partito ha sempre mostrato doti tattiche ma mai grandi capacità strategiche, sarà in grado di interpretare al meglio la strategia del grande fronte popolare antirazzista. Ma forse la domanda vera è un’altra. Quanti danni potrà provocare al Paese la narrazione di una società dominata dal razzismo quando questo razzismo è inventato così come era inventato il fascismo degli anni Settanta?