Gli interessi diversi ma comuni di Salvini e Di Maio | Arturo Diaconale

21 Maggio 2018
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Il governo che vedrà la luce è il frutto della determinazione personale di Matteo Salvini e di Luigi Di Maio. Nel mettere insieme il diavolo e l’acqua santa in un patto che non potrà trovare alcuna applicazione concreta tranne pochi casi significativi (Tav, Ilva), i collaboratori dei due esponenti politici non hanno rappresentato le istanze più sentite dei rispettivi partiti ma solo la convinzione di Salvini e di Maio che la nascita dell’esecutivo giallo-verde era l’occasione della loro vita. Una occasione da cogliere ad ogni costo. Anche se a pagare gran parte di questo costo sarà comunque il paese.

Per il leader grillino la decisione di puntare senza subordinate di sorta al Patto con la Lega è stata provocata da due ragioni di fondo. La prima è la consapevolezza che se non fosse riuscito a formare il governo la sua avventura politica si sarebbe fatalmente interrotta. A riportarlo alla condizione di peones del Movimento ci avrebbero pensato gli elettori grillini delusi dal mancato traguardo governativo tanto strombazzato dallo stesso Luigi e sobillati dai tanti esponenti della componente grillina più radicale (Grillo, Fico, Di Battista) preoccupati della perdita della verginità politica provocata dalla contaminazione con il potere. A questo interesse personale si è aggiunto anche un interesse politico più generale. Quello di legare Salvini in un abbraccio governativo difficile da sciogliere per impedire al leader leghista di mantenere la guida di un centro destra che in assenza di alleanza tra Lega e M5S sarebbe diventato l’alternativa sicuramente vincente al polo grillino.

Altrettanto chiare le motivazioni opposte del leader leghista. Avrebbe potuto puntare sulle elezioni anticipate ad ottobre per rinforzare l’egemonia della Lega sul centro destra e dare vita ad un governo moderato di legislatura. Invece, ha voluto l’accordo con Di Maio anche a rischio di rompere con i suoi alleati nelle regioni e nelle amministrazioni locali. E lo ha fatto nel timore che una nuova campagna elettorale, segnata dal ritorno del candidato Silvio Berlusconi, avrebbe potuto riaprire i giochi per la leadership nel fronte moderato. E nella speranza che facendo perdere la verginità politica al M5S coinvolgendolo nel governo potrebbe in prospettiva puntare a sfondare il movimento grillino non come leader di un centro destra considerato ormai superato ma come il capo incontrastato di un partito totalmente nuovo fondato su un populismo sovranista volutamente trasversale.

È difficile stabilire oggi chi vincerà questa partita tra Salvini e Di Maio. Di sicuro, però, si sa che se i gioco dovesse provocare danni al paese i responsabili saranno facilmente identificati. E ne pagheranno le spese.