La polizia italiana, quella egiziana e l’ipocrisia | Arturo Diaconale

22 Marzo 2018
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Hanno tutti ragione e tutti torto nella vicenda del pm Enrico Zucca che ha paragonato i poliziotti italiani del G8 ai poliziotti torturatori egiziani del caso Regeni. Il magistrato, che è stato pubblico ministero nel processo contro gli agenti della polizia di Stato responsabili delle violenze avvenute nella scuola Diaz, non ha avuto sicuramente torto nel rilevare l’anomalia rappresentata dalla circostanza che i condannati per le manganellate ai dimostranti del 2001 abbiano fatto carriera e si trovino in posizioni significative nella struttura della polizia.

Hanno tutti ragione e tutti torto nella vicenda del pm Enrico Zucca che ha paragonato i poliziotti italiani del G8 ai poliziotti torturatori egiziani del caso Regeni. Il magistrato, che è stato pubblico ministero nel processo contro gli agenti della polizia di Stato responsabili delle violenze avvenute nella scuola Diaz, non ha avuto sicuramente torto nel rilevare l’anomalia rappresentata dalla circostanza che i condannati per le manganellate ai dimostranti del 2001 abbiano fatto carriera e si trovino in posizioni significative nella struttura della polizia. Ma ha avuto altrettanto sicuramente torto nel paragonare questi poliziotti ai torturatori egiziani di Giulio Regeni, lasciando intendere che le istituzioni democratiche italiane siano identiche a quelle del regime militare egiziano.

Il capo della polizia di Stato, Franco Gabrielli, ha bollato come “oltraggiose” le parole del magistrato genovese. E il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Giovanni Legnini, le ha definite a sua volta “inappropriate”. Anche loro, ovviamente, hanno la loro parte di ragione. Ma anche un pizzico di torto nel non riconoscere che in fondo non è del tutto regolare permettere carriere prestigiose, o comunque significative, a chi da uomo dello Stato è risultato colpevole di reati.

È molto difficile stabilire chi abbia più torto e chi più ragione in questa singolare vicenda. Al punto da immaginare che ben presto, quando l’attenzione mediatica si sarà diradata, si tenderà a considerare torti e ragioni talmente simili da elidersi a vicenda. Ovviamente per mettere una pietra tombale su una storia imbarazzante per tutti.

Ma una conclusione del genere costituirebbe l’ennesima soluzione all’italiana di una faccenda che andrebbe riesaminata integralmente. A partire non dalla conclusione del processo ai responsabili delle bastonate della Diaz, ma dalle manifestazioni del G8 di Genova effettuate da gruppi di antagonisti decisi a cercare a ogni costo il morto da gettare, come ostacolo insormontabile, lungo il cammino dell’allora neonato Governo Berlusconi. Come tutti ricordano, il morto tanto intensamente cercato venne trovato nel giovane Carlo Giuliani, ucciso per legittima difesa da un altrettanto giovane carabiniere. Chi decise di scatenare la violenza di piazza contava di affondare il governo di allora con il cadavere debitamente santificato del povero ragazzo antagonista. Cioè di usare la violenza per un preciso fine politico.

Non aver identificato a suo tempo i responsabili di questa operazione ha innescato tutto il resto di torti e ragioni tanto strumentali quanto devastanti. L’Italia non è l’Egitto. Forse, almeno in termini di ipocrisia, peggio!