“Facciamo affari”. È la nuova linea di politica estera del nostro Paese. Quella che viene consacrata con la visita in Italia del presidente cinese Xi Jinping e che appare come la vera caratteristica distintiva del Governo giallo-verde guidato (almeno formalmente) da Giuseppe Conte.
Questa linea, ovviamente, non è nuova. Ma da sottotraccia com’era durante gli anni della Guerra fredda, quando la politica estera era di fatto demandata agli Stati Uniti ed alla Nato e gli affari con i Paesi esterni e magari concorrenti del Blocco Atlantico si facevano sottobanco (quelli della Fiat con l’Urss o quelli dell’Eni con il mondo arabo nazionalista ed anti-occidentale), oggi diventa ufficiale, ostentata e rivendicata come l’unica possibile per chi non può permettersi una politica di media potenza, considera perso lo scudo americano e scopre di essere ai margini dell’Europa che conta.
Fare affari non è un peccato. Soprattutto se si pensa che non esiste una vera alternativa ad una sorte del genere. Perché il disimpegno progressivo degli Stati Uniti iniziato con i presidenti democratici ed ora diventato il tratto distintivo della presidenza Trump non permette di continuare a considerare una certezza rassicurante la presenza dell’Italia nel mondo occidentale. Al tempo stesso, l’egoismo dei Paesi trainanti dell’Europa continentale allenta progressivamente i vincoli politici (ed in qualche caso anche economici) con il Vecchio Continente. Pensare solo agli affari, allora, non solo non è un peccato ma diventa addirittura una necessità obbligata. Finito il lungo tempo delle certezze e delle coperture assicurate dai vincitori della Seconda guerra mondiale, l’Italia scopre di ritrovarsi in mare aperto e torna a navigare seguendo come unica stella polare l’antica vocazione mercantile e commerciale.
Tutto questo, però, avviene ad opera di un governo che deve la fortuna politica di una delle sue componenti alla predicazione dell’identità tra traffici e corruzione e che all’interno dei confini nazionali porta avanti una politica diretta a combattere i fenomeni corruttivi colpendo il più possibile le attività imprenditoriali, commerciali e mercantili.
La contraddizione è marcata, stridente, clamorosa. La politica estera incentrata sugli affari consente di trattare con chiunque, da Xi a Maduro, da Putin a tutti i dittatori arabi ed africani, infischiandosene dei valori della democrazia, dei diritti civili e della tutela di quella civiltà occidentale che è la fonte identitaria di simili valori. La politica interna fondata sulla concezione che dietro ogni attività imprenditoriale si nasconde la peste corruttiva produce la paralisi progressiva dell’economia produttiva del Paese.
Una simile forma di schizofrenia acuta va curata. Al più presto.