La sorte paradossale di Zingaretti e Di Maio | Arturo Diaconale

22 Novembre 2019
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Non è detto che la crisi del Movimento Cinque Stelle sia destinata a scaricarsi direttamente sul governo. Tutte le componenti della coalizione giallorossa sono terrorizzate dalla prospettiva di elezioni anticipate. E questa paura è il solo ed unico puntello su cui può continuare a reggere l’esecutivo di Giuseppe Conte. È assolutamente sicuro, però, che la crisi grillina abbia conseguenze nefaste sul Partito Democratico. Al suo interno le ormai probabili sconfitte elettorali nelle regionali dell’Emilia-Romagna e dalla Calabria non potranno non innescare lo scoppio delle tensioni fino ad ora frenate dall’armistizio tra correnti su cui poggia la segreteria di Nicola Zingaretti.

Quest’ultimo rischia di essere vittima di una singolare sorte. Pur essendo stato il più restio tra i dirigenti del Pd a stringere l’accordo di governo con il Movimento Cinque Stelle, ora pare condannato a diventare la prima e principale vittima del fallimento di questa alleanza certificato dal voto sulla rete Rousseau con cui la base grillina ha bocciato la linea politica indicata dal gruppo dirigente nazionale. Stessa sorte per il capo politico del M5S Luigi Di Maio. Anche lui non aveva nascosto la sua contrarietà all’accordo governativo con il Pd ed era stato costretto a piegarsi alle indicazioni di Beppe Grillo suffragate dal sostegno di un apposito voto su Rousseau. Ma anche lui, come il segretario dem, pare condannato ad essere la vittima più diretta della scelta dei militanti di non sacrificare le proprie liste a vantaggio del Pd e dell’alleanza di governo alle prossime elezioni regionali.

Simul stabunt, simul cadent, allora? Per Zingaretti e Di Maio pare proprio di si. L’accordo che i due avevano osteggiato è stato terremotato ed loro due sono condannati a rimanere sotto le macerie di ciò che non avrebbero voluto. D’ora in avanti nei rispettivi partiti si aprirà la lotta senza tregua per la loro successione. Una lotta che potrebbe essere interrotta solo da elezioni anticipate a febbraio o, come spera Giuseppe Conte, dal rinvio della caduta del governo al momento in cui i travagli interni di Pd e M5S saranno terminati.

Il vero guaio di tutta questa storia è che i cocci della rottura tra Pd e M5S non sono i loro ma dell’intera società nazionale.