La rivoluzione fallita di Borrelli e le sue conseguenze | Arturo Diaconale

22 Luglio 2019
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Il capo della rivoluzione giudiziaria non era un rivoluzionario. Francesco Saverio Borrelli si era ritrovato casualmente in mano lo strumento per determinare una svolta autenticamente rivoluzionaria nella storia del secondo dopoguerra italiano cancellando la Prima Repubblica dei partiti e sostituendola con la repubblica fondata sul regime delle toghe “illuminate” e non elette dal popolo. Ma aveva provocato consapevolmente la distruzione dell’assetto politico fondato sulla democrazia parlamentare senza però avere la capacità di passare dal colpo di stato alla instaurazione del nuovo regime di cui aveva gettato le basi insieme al Pool di “Mani Pulite”.

Oggi la scomparsa di Borrelli diventa l’occasione, secondo la consuetudine corrente, per celebrarne tutte le qualità umane e private del personaggio. Ma volendo dare un giudizio rigorosamente politico e storico dell’operato pubblico dell’artefice principale della cosiddetta rivoluzione giudiziaria, si deve necessariamente concludere che si trattò di un rivoluzionario inconsapevole e fallito. Pronto e tempestivo nel distruggere ma totalmente incapace di costruire.

Naturalmente, dal punto di vista di chi come me ha scritto nel 1995 il primo libro dedicato al cosiddetto golpe giudiziario (“Tecnica post-moderna del colpo di stato: magistrati e giornalisti”), quella incapacità di essere rivoluzionario fino in fondo, è stata salutare. Il Paese ha avuto la fortuna di non finire sotto un regime autoritario formato da magistrati-colonnelli convinti di avere una missione salvifica da portare avanti con la spada della giustizia fiammeggiante, ma del tutto ignari dei problemi e delle necessità reali del Paese. Questo fallimento della rivoluzione non è minimamente dipeso dalla fedeltà ai valori della libertà e della democrazia. Valori che in Borrelli e nei componenti del suo Pool erano del tutto assenti. Ma solo dalla mancanza assoluta di capacità politica. Se fossero stati dei Khomeyni, oggi l’Italia sarebbe retta da un sistema teocratico e totalitario simile a quello komeinista iraniano. Ma Borelli ed i suoi erano e sono rimasti dei magistrati buoni ad esondare nel campo della politica, ma geneticamente impossibilitati a trasformare l’esondazione in un qualche risultato politico stabile.

Questo deficit genetico, va ribadito, è stato salutare. Ma è anche il responsabile del caos istituzionale dei 25 anni successivi alla fine dalla rivoluzione giudiziaria fallita. Il caos di uno stato di diritto che non è più tale per via di un populismo giudiziario nato alla metà degli anni Novanta e che tiene paralizzato il Paese agli equivoci ed alle incapacità di quel tempo. Forse è arrivato il momento non solo di dare pietà ai morti, ma anche di dare speranza ai vivi di un sollecito ritorno allo stato di diritto senza esondazioni di sorta.