Rai, una ragione politica e non personale | Arturo Diaconale

19 Luglio 2018
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Chi segue i miei commenti sul “L’Opinione” sa bene che difficilmente scrivo in prima persona e di vicende che mi riguardano in maniera diretta. Ma così come avevo fatto nel momento in cui ero stato entrato per nomina parlamentare nel Consiglio di Amministrazione della Rai, lo faccio oggi che concludo quella esperienza e torno in maniera esclusiva alla mia professione di giornalista libero da condizionamenti di sorta.

Non sono affatto dispiaciuto di essere giunto al termine del mandato di consigliere di amministrazione della Rai. Al contrario, vivo questo momento con un senso di liberazione visto che per tre anni ho assunto responsabilità di natura civile e penale senza avere, a causa della Legge Madia che fissa discriminazioni per sole ragioni anagrafiche, alcun tipo di retribuzione. Naturalmente questo senso di liberazione non ha alcun significato recriminatorio. Non mi pento affatto dell’esperienza compiuta al vertice dell’azione radiotelevisiva pubblica del mio Paese, esperienza che mi ha arricchito dal punto di vista professionale e umano. Ho conosciuto e frequentato persone di grande qualità e sono riuscito ad avere una informazione più chiara e dettagliata della maggiore azienda italiana di cultura e di comunicazione.

Questa esperienza ha modificato alcune mie opinioni. In precedenza, da liberale, ero in linea di principio favorevole alla privatizzazione del servizio pubblico. Oggi, sempre da liberale che però ha visto il mercato globale in cui operano le grandi multinazionali della comunicazione, mi sono convinto che solo conservando un servizio pubblico effettivamente pluralista sia possibile evitare una colonizzazione culturale totale di un Paese che ha la propria identità come unica difesa alla omologazione planetaria. Sul tema del pluralismo, poi, essendo stato consigliere d’opposizione nella fase del renzismo trionfante in Rai, mi sono reso conto che solo la pluralità delle voci e delle culture giustifica l’esistenza di un servizio pubblico che, proprio per questa ragione, dovrebbe essere affrancato dal controllo governativo voluto dall’ultima riforma e riportato sotto la competenza della democrazia rappresentativa, cioè dal Parlamento.

È sulla base di queste considerazioni che non posso concludere la mia esperienza senza definire un grave errore la scelta di Forza Italia, partito che ha segnato la storia del Paese negli ultimi due decenni, di rinunciare alla presenza nel vertice dell’azienda radiotelevisiva pubblica. Questa rinuncia non è un segnale di rinnovamento e di rilancio ma solo di autoesclusione dall’organo di indirizzo e di controllo pluralista del servizio pubblico. In pratica, un atto di declino e di resa.

Non lo dico per fatto personale. Lo dico da analista politico, che avrebbe potuto essere tranquillamente sostituito da persona adeguata. Purtroppo, però, questa capacità di analisi sembra essersi allontanata dal vertice di Forza Italia. E, forse, per chi ha a cuore le sorti di questa forza politica, è arrivato il momento di incominciarne a parlare!