L'Opinione delle Libertà | Arturo Diaconale - Part 12


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Redazione17 Settembre 2019

Da segretario del Partito Democratico Matteo Renzi si accinge a diventare il Presidente del Consiglio-ombra del Conte-bis. All’ex Premier bastano meno di dieci  senatori per diventare il vero padrone dell’esecutivo giallo-rosso da lui così efficacemente promosso e sostenuto.

Chi pensa che Renzi non avrà mai interesse a tirare la corda al collo del Conte-bis fino a strozzarlo, ha ragione nel tempo breve. Nei prossimi mesi è certo che l’artefice dell’ennesima scissione del Pd si porrà come primo sostenitore e puntello dell’attuale coalizione governativa. Non fosse altro perché ci sono più di cinquecento nomine nelle società pubbliche da decidere ed il capo del vecchio “giglio magico”, da padrone effettivo del governo, vuole la sua parte sapendo bene che solo conquistando posizioni di potere reale potrà rinforzare il proprio partito. Ma passata la grande abbuffata e, magari, nel bel mezzo delle spartizioni e proprio per aumentare il proprio peso e rivendicare più posti, Renzi dovrà necessariamente incominciare a caratterizzare politicamente la propria formazione. E se vuole posizionarsi al centro della scena politica ed in questo modo intercettare spezzoni di Forza Italia e diventare il punto di aggregazione di tutti gli sbandati della galassia centrista, dovrà necessariamente porsi come il primo e più deciso critico nei confronti del Movimento Cinque Stelle e di un Pd sempre più sbilanciato a sinistra.

Non è detto che le critiche debbano sfociare rapidamente in rottura. Renzi farà saltare il governo di cui si accinge a diventare il dominus solo e quando avrà consolidato il suo partito e riterrà conveniente andare alle elezioni. Ma quale vita può avere un esecutivo che ha una bomba ad orologeria piazzata sulla testa pronta a scoppiare a scelta esclusiva di un personaggio imprevedibile come il rancoroso fiorentino?

La domanda va girata a Nicola Zingaretti, che in nome dell’unità del Pd ha deciso di evitare le elezioni con cui avrebbe potuto liquidare una volta per tutte il renzismo e che oggi si ritrova con il partito lacerato da una scissione fin troppo annunciata. Va presentata, con tutto il rispetto possibile, al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha formalmente applicato la Costituzione fornendo a Pd e M5S il tempo necessario per formare il governo ma che, nella sostanza, è stato ben felice di assicurare questi tempi e scongiurare una tornata elettorale anticipata destinata a concludersi con la vittoria del centro destra. E va rivolta a tutti i grandi sponsorizzatori del Conte-bis, dal Papa alla Ue, che hanno fatto di tutto per evitare il rischio che Salvini diventasse l’uomo solo al comando ed ora si ritrovano con un governo super-precario e con Renzi diventato l’uomo solo in regia!

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Redazione16 Settembre 2019

Quello che Matteo Renzi si accinge a varare è un partito che ha come obbiettivo immediato, pratico e concreto, di consentire all’ex premier di sedere al tavolo dove gli alleati di governo decidono i vertici delle società controllate dallo stato. Si calcola che in scadenza ci siano almeno cinquecento caselle in Cassa Depositi e Prestiti, Enel, Terna, Inps, Agicom, Eni, Leonardo, Poste e società minori. Al momento a sostituire i manager in scadenza sono Conte, Zingaretti, Di Maio e Speranza o Bersani, cioè il Presidente del Consiglio ed i leader dei partiti che compongono la maggioranza. Se Renzi esce dal Pd , crea a suoi gruppi parlamentari e conferma il proprio sostegno all’esecutivo giallo-rosso, può rivendicare di entrare a far parte del tavolo ristretto dei massimi decisori. In caso contrario deve rimettersi al buon cuore di Nicola Zingaretti, che come ha dimostrato la nomina dei sottosegretari e vice ministri non sembra essere tanto buono quanto si tratta di soddisfare gli appetiti dei renziani.

Naturalmente ci sono anche altre ragioni a spingere Renzi a dare vita ad un proprio partito. A partire dalla necessità di tornare a separare il destino dei post-democristiani da quello dei post-comunisti fino ad arrivare alla speranza di attrarre tanti esponenti di Forza Italia ostili a Salvini e nostalgici del nazarenismo.

Ma il motivo più contingente e pressante è la necessità di partecipare in prima persona al banchetto delle poltrone che contano e che pesano nel nostro paese. Perché è convinzione del “segretario ombra” del Pd che, se dovesse perdere questa occasione di conquistare casematte di potere reale, il suo ruolo nel Partito Democratico verrebbe progressivamente ridimensionato da parte di un segretario formale deciso a riconquistare in pieno la sua funzione di guida e di controllo della “ditta”.

Insomma, anche se nessuno conosce il simbolo del futuro partito renziano, tutti danno per scontato che dovrebbe essere quello della poltrona. Il ché non dovrebbe stupire più di tanto se si pensa che il governo Conte nasce dalla necessità congiunta di Pd e M5S di non perdere le poltrone parlamentari in caso di elezioni anticipate, che lo stesso Presidente del Consiglio passerà alla storia come l’uomo della poltrona continua e che la motivazione ideale della attuale coalizione è rappresentata dalla preoccupazione che alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella sulla poltrona del Capo dello Stato ci possa sedere un esponente del centro destra.

Si dirà che la politica è da sempre lotta per le poltrone e che Renzi non fa altro che applicare quella rivisitazione di un vecchio detto latino secondo cui “ homo sine poltrona imago mortis”.

Ma se ogni motivazione ideale si riduce a far stare più comodo il proprio deretano, si può concludere che è la vita pubblica italiana nell’era giallo-rossa è diventata una “imago mortis”?

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Redazione13 Settembre 2019

Non sono sopportabili quei soloni da salotto mediatico che sentenziano sulla presunta impresentabilità della destra italiana e fingono di lamentarsi per l’assenza di una destra autenticamente moderata, liberale, europeista e degna di stare a tavola al loro cospetto. Ma sono ancora meno sopportabili quegli esponenti dello schieramento al momento avverso all’alleanza tra gialli e rossi che pendono dalle labbra di questi soloni e, nella convinzione che una destra del genere non potrà mai emergere e liberarsi dal sovranismo populista impresentabile, si ammantano di realismo e cercano di saltare in ogni modo sul carro del vincitore.

Di questi ultimi è inutile parlare. Sono loro ad essere moralmente e culturalmente impresentabili per la loro insopprimibile vocazione a badare solo ed esclusivamente ai propri interessi personali a dispetto di ogni principio ed ogni valore.

Ma dei soloni da salotto bisogna parlare. Per denunciare la loro disonestà intellettuale quando usano l’argomento della inesistenza di una destra normale non per aprire una discussione sulla questione ma per criminalizzare e mettere al bando chiunque si ponga all’opposizione della casta elitaria che controlla il governo ed ogni centro di potere importante del paese.

Costoro partono dal presupposto che l’unica destra buona è quella morta, sepolta, archiviata nei più riposti scaffali della storia patria. Quella presente, qualunque forma possa avere, è sempre inaccettabile, inadeguata, reazionaria e, di conseguenza, condannata ad un ghetto politico le cui porte vanno chiuse a doppia mandata.

I cretini che credono ai soloni vanno informati che se pure rispuntassero i campioni della destra storica dell’epoca della formazione dello stato unitario subirebbero la stessa sorte. Verrebbero criminalizzati con qualche motivazione occasionale, come lo sono stati i liberali delle generazioni successive fino a Giolitti (ministro della malavita secondo la sinistra) e tutti quelli dei sette decenni dell’Italia repubblicana colpevoli di essersi opposti alla cultura cattocomunista egemone.

I soloni, infatti, sono dei criminalizzatori e dei linciatori di professione. Perché sono impregnati di quella vulgata egemonica che considera un eretico da bruciare chiunque osi divergere, dissentire, opporsi.

Per questo va difesa sempre e comunque la destra che c’è con tutte le sue diversità e le sue articolazioni, anche quelle più radicali. Perché non è l’esistenza dei ghetti che garantisce la democrazia ma solo quella dei divergenti, dei dissidenti, degli oppositori.

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Redazione12 Settembre 2019

Il tallone di Achille del Conte-bis si chiama Matteo Renzi. L’ex Presidente del Consiglio non si accontenta di essersi conquistato, sul campo della formazione del governo trasformista, la qualifica di “segretario-ombra” del Pd in attesa di tornare ad essere il segretario ufficiale ed incontrastato dello stesso partito. Considera questo percorso troppo lungo e troppo condizionato da una serie di correnti e di micro-gruppi interni con cui dovrebbe fare i conti e che potrebbero creare problemi e difficoltà superabili solo con grande fatica. Per cui appare deciso a scartare l’opzione della permanenza nel Pd per riconquistarlo dall’interno ed a puntare sulla opzione che prevede la nascita di gruppi parlamentari autonomi alla Camera ed al Senato alleati, ovviamente, con il partito guidato da Nicola Zingaretti ma proiettati a creare le condizioni per una nuova formazione politica separata a cui dare vita dopo la riforma in senso proporzionale del sistema elettorale.

A Renzi si può rimproverare di tutto, a partire dalla incredibile rapidità e spregiudicatezza delle sue svolte tattiche. Ma gli si deve riconoscere la capacità di perseguire con determinazione e senza ripensamenti di sorta le proprie scelte strategiche. Questa caratteristica l’ha messa in mostra in occasione della riforma istituzionale e del referendum fallito. Ed ora rispunta con la strategia diretta a sfruttare la riforma elettorale destinata a rendere applicabile il dissennato taglio dei parlamentari voluto dal M5S solo per esigenze di propaganda.

In questa luce la formazione di gruppi parlamentari autonomi serve a Renzi per spostare sul terreno della riforma in senso proporzionale la battaglia con Zingaretti e la parte del Pd che rimarrà con il segretario attuale. Il disegno dell’ex Premier è di sfruttare il feroce attaccamento dei grillini alle poltrone parlamentari per costringere Zingaretti ad accettare il ritorno al proporzionale senza ingaggiare uno scontro con i renziani che potrebbe portare alla crisi di governo. Con i gruppi parlamentari autonomi, con i quali Renzi conta di attrarre pezzi importanti di Forza Italia, e con la fine del maggioritario, diventa automatica la formazione di un partito autonomo da porre al centro e trasformare nell’ago della bilancia della scena politica italiana.

Zingaretti ed i vari Prodi e Veltroni avranno mai la forza di contrastare il disegno renziano? Se la troveranno il governo dei trasformisti arriverà obbligatoriamente alla fine.

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Redazione12 Settembre 2019

La morte di Stefano Delle Chiaie dovrebbe sollevare due problemi specifici. Quello dell’assoluzione che non assolve. Cioè della sentenza giudiziaria di non colpevolezza che, non per insufficienza di prove ma per pregiudizio politico, non cancella in alcun modo il peso dell’accusa giudicata infondata ma, al contrario, la carica di una serie di aggravanti riconducibili alla pretesa dell’ex imputato di considerarsi innocente e di non confessare la colpa che gli è stata attribuita dalla vulgata mediatica dominante.

Questa vulgata ha scaricato su Delle Chiaie l’accusa di essere stato al centro di tutte le trame e le stragi nere del secondo dopoguerra italiano. Ed è con questa accusa, e non con le assoluzioni giudiziarie, che il fondatore di Avanguardia Nazionale viene seppellito all’insegna del “fine pregiudizio mai”.

È proprio questa considerazione che dovrebbe imporre, per onestà intellettuale, non una qualche beatificazione postuma dell’esponente neofascista scomparso ma una riflessione complessiva, più attenta e meno condizionata da un contesto politico ormai superato, sulla cosiddetta strategia della tensione e sulla tesi dominante da alcuni decenni secondo cui questa strategia venne realizzata dai gruppi neofascisti italiani ed internazionali non solo a causa delle proprie forsennatezze ideologiche ma anche e soprattutto come manovalanza di un “doppio stato” formato da oscuri poteri atlantici e dalla mafia nostrana.

Una riflessione del genere non dovrebbe avere come obbiettivo quello di negare che la strategia della tensione ci sia stata con tutto il suo carico di stragi e di “anni di piombo”. Più semplicemente dovrebbe servire a fare chiarezza su un periodo della storia italiana in cui il fenomeno del post-fascismo, di per se marginale, è stato per un verso alimentato e per l’altro criminalizzato allo scopo di trasformarlo nel comodo capro espiatorio di vicende molto più complesse figlie della guerra fredda e della particolare condizione dell’Italia di essere terra di confine tra i due blocchi.

È praticamente impossibile che questa riflessione diretta alla ricerca di una verità oggi nascosta possa essere innescata dalla scomparsa di Delle Chiae. Il pregiudizio è ancora dominante. Ma sollecitarla insistendo nella richiesta che vengano resi noti i documenti segreti raccolti dalla commissione stragi è un atto doveroso. Se non si conoscono le verità del passato come barcamenarsi tra le difficoltà del presente?

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Redazione11 Settembre 2019

Non è la mitezza il tratto distintivo del Conte-bis ma il livore per fatto personale e per fatto politico. Il primo è quello del Presidente del Consiglio che non sembra in grado di superare l’affronto subito da Matteo Salvini con la crisi dell’8 agosto e pare deciso a trasformare la sua seconda esperienza a Palazzo Chigi in una crociata continua contro la Lega ed il suo leader. Il secondo, quello per fatto politico, è per un verso più serio di quello di un Premier troppo permaloso per diventare un uomo pubblico di livello, ma per l’altro verso molto più pericoloso. Perché mette in tutta evidenza che l’alleanza tra Pd e M5S è nata solo per impedire che il centro destra potesse vincere a mani basse le elezioni anticipate ed ha come unico e solo obbiettivo quello di scongiurare l’ipotesi che lo stesso centro destra possa fare il pieno di voti quando, presto o tardi, si andrà comunque a votare.

Il governo giallo-rosso, dunque, è nato per impedire elezioni che avrebbero segnato la sconfitta di Pd e M5S ed è destinato a rimanere in vita solo dopo aver creato le condizioni per rendere impossibile una sconfitta elettorale dei due partiti ed una vittoria di quelli avversi del centro destra.

Gli strateghi del fatto personale politico sono convinti che l’unico modo per mettere in sicurezza Pd e M5S sia di approfittare del taglio dei parlamentari voluto dai grillini per dare vita ad una legge elettorale che cancelli il residuo di maggioritario esistente nel Rosatellum ed introduca un sistema proporzionale corretto da qualche sbarramento per i partiti minori. In questo modo nessun partito potrà proclamarsi vincitore, le coalizioni di governo si formeranno dopo il voto e non saranno sottoposte al vaglio preventivo del corpo elettorale e, nei progetti degli strateghi, Pd e M5S non avranno alcuna difficoltà a ripetere ed a stabilizzare l’operazione trasformistica di adesso.

Ma, a parte la considerazione che il cambiamento del governo giallo-rosso sarebbe il ritorno alla partitocrazia della Prima Repubblica (cioè al suo aspetto peggiore), non esiste alcuna certezza che il proporzionale con il taglio dei parlamentari garantirebbe la permanenza di Pd e M5S al governo. Perché l’ultima parola spetterebbe comunque al corpo elettorale. Che potrebbe bocciare il trasformismo di sinistra e premiare una alleanza post-voto tra i partiti di destra e di centro tesa a mandare all’opposizione sia i gialli che i rossi.

Gli strateghi troppo furbi molto spesso si incartano da soli!

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Redazione10 Settembre 2019

Si può fare opposizione al Conte-bis senza bisogno di scendere in piazza? Matteo Salvini e Giorgia Meloni dovrebbero sfuggire alla tentazione di considerare che il campo degli avversari del governo giallo-rosso debba comprendere solo quanti hanno intenzione di partecipare alle manifestazioni di protesta da tenere negli spazi pubblici del paese. L’area di chi considera una iattura il ritorno del Pd al governo in compagnia dei trasformisti del M5S, è molto più ampia di quella formata dai militanti di Lega e Fratelli d’Italia. Non c’è bisogno di ripercorrere la storia dell’Italia repubblicana per convincersi che lo schieramento avverso alla sinistra ed alle sue degenerazioni giustizialiste è formato da una serie di componenti tra loro molto diverse. Queste componenti aggiuntive a quelle formate da Lega e Fratelli d’Italia non sono solo i gruppi del cosiddetto centro moderato a cui sembra rifarsi Forza Italia. La stessa destra non si esaurisce in Salvini e nella Meloni ma ha una serie di articolazioni che vanno dai gruppi più radicali a quelli ispirati a valori liberali antagonisti ed alternativi alla sinistra.

Sarebbe un errore, allora, considerare opposizione solo quella della piazza. Un errore che porterebbe ad una autoghettizzazione che rischierebbe di isolare e marginalizzare le componenti del sovranismo populista regalando il paese al Partito Democratico ed al Movimento Cinque Stelle non per il resto della legislatura ma per un tempo molto più lungo.

Mai come in questo momento, invece, l’obbiettivo che Salvini e la Meloni dovrebbero perseguire è quello dell’allargamento a forze diverse e del coinvolgimento delle tante anime di una maggioranza che va in piazza ma che manifesta il proprio dissenso anche rimanendo in silenzio ed operando senza canti e bandiere.

Non si tratta di una impresa facile. Soprattutto per chi, come Salvini, è stato oggetto di una criminalizzazione interna ed internazionale tesa a escluderlo vita natural durante dal governo del paese. Ma il leader della Lega deve fare lezione di quanto avvenuto. E riprendere il cammino tenendo sempre presente che l’isolamento porta a fare la fine di Marine Le Pen.

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Redazione9 Settembre 2019

Heri dicebamus. Il ritorno del Pd al governo viene presentato come la fine di una parentesi accidentale che aveva occasionalmente interrotto il processo ineluttabile ed irreversibile della presenza dei post-comunisti al vertice politico del paese.

La parentesi, ovviamente, è rappresentata da Matteo Salvini. Che viene presentata come il bizzarro incidente di percorso finalmente giunto alla sua inevitabile conclusione.

Ma è questo generale senso di sollievo, esibito con una enfasi decisamente eccessiva da parte di tutti i massima rappresentanti dei cosiddetti poteri forti europei e nostrani ( a Bruxelles, a Cernobbio, in Vaticano, al Quirinale e via di seguito), che mette in mostra una dei difetti più ricorrenti e clamorosi di certa sinistra politica ed intellettuale rappresentato dalla cosiddetta sindrome della ricottina. Quella del contadino che andando al mercato per vendere una ricotta si era autoconvinto che con i soldi della vendita avrebbe acquistato una mucca che gli avrebbe dato un reddito capace di fargli costruire una grande stalla piena di animali destinata a trasformarlo in un ricco possidente. E che mentre fantasticava sui rotoli di denaro che avrebbe inevitabilmente avuto perse l’equilibrio facendo cadere la ricotta e tutti i sogni ad essa connessi.

L’eccesso di enfasi per l’“heri dicebamus” e la fine dell’incidente non tiene conto di una realtà rappresentata da una ricottina governativa che può cadere da un momento all’altro all’interno di una società italiana in cui la maggioranza dei cittadini non ha alcun motivo di tirare lo stesso sospiro di sollievo della casta dei privilegiati.

Questo scollamento dalla realtà della sinistra e della sussistenza grillina giunta al suo seguito è un difetto genetico difficilmente superabile. Ed è il vero puntello su cui l’opposizione di centro destra può dare vita ad una alternativa ampia e credibile alla attuale coalizione degli scampati al voto anticipato.

Per non tornare ad essere un incidente di percorso, però, le diverse componenti dell’area di opposizione debbono incominciare ad evitare di dividersi se la vera opposizione si debba fare più nelle piazze che nel Palazzo. Ognuno scelga il suo modo di porsi in alternativa ai rossi con bande gialle. La diversità assicura una offerta di opposizione più articolata. L’importante è che si rimanga uniti nel proposito di far cadere la ricottina ed i sogni irrealistici della sinistra!

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Redazione6 Settembre 2019

A Papa Francesco non piacciono gli americani. Non solo quelli della destra cattolica Usa che lo attaccano e vorrebbero che si dimettesse seguendo l’esempio del proprio predecessore. Ma gli americani in genere. Quelli che non solo hanno inventato il consumismo ed esportato il capitalismo in tutti gli angoli del mondo ma hanno fissato, con la dottrina Monroe, che a comandare nelle due Americhe debbono essere solo loro.

Tutto questo dimostra che Papa Francesco è un peronista di sinistra? Probabilmente si. Ma la questione che si pone non è che il vicario di Cristo sia un convinto sostenitore di una teologia della liberazione in salsa peronista ma che abbia come unico obbiettivo quello di convertire l’intera Chiesa alla sua ideologia disinteressandosi completamente delle conseguenze pratiche e concrete che la sua scelta produce sulle società del mondo occidentale.

Un laico può anche infischiarsene se la Chiesa diventa peronista di sinistra e per farlo scatena al proprio interno una sorta di crociata contro chi non accetta una conversione così radicale. Il mondo cristiano è sempre stato segnato da feroci guerre intestine. E se un Papa ed una parte delle gerarchie ecclesiastiche decidono di lanciare interdetti, scomuniche e quant’altro contro i presunti eretici, sono fatti loro. Ma un laico non può non rilevare come le guerre fratricide tra i cattolici  abbiano conseguenze pesanti sulle realtà politiche e sociali dei paesi occidentali. E non può non denunciare la grandissima pericolosità dei risvolti politici delle scelte ideologiche ammantata da motivazioni religiose compiute da Francesco.

Certo, in un paese dominato da un conformismo papista pari a quello presente nel regime komeinista iraniano, criticare il Papa è un atto ai limiti del reato. Ma perché tacere se Francesco è anticapitalista ed anticonsumista e si è convinti che un capitalismo con regole ed un consumismo mitigato da limiti alle multinazionali costituiscono l’unica risposta allo sviluppo del pianeta ed ai problemi di povertà ed indigenza delle aree arretrate? E perché non contestare l’antiamericanismo peronista se si crede che l’Atlantismo sia mille volte meglio del servaggio all’egemonia franco-tedesca? E perché non opporsi all’obbiettivo del meticciato multietico del papato Ong non in nome di una inesistente purezza della razza ma sulla base del legittimo timore che l’apertura indiscriminata provochi tensioni sociali e politiche difficilmente gestibili? E perché, infine, se non si è d’accordo sul marchio papale dato al governo Conte-bis non dirlo senza timore di scomuniche ed interdetti?

Un Papa tutto politico non è infallibile ma contestabile!

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Redazione5 Settembre 2019

Tra le pieghe di una informazione edulcorata a beneficio del Conte-bis si scopre che la Cancelliera Merkel ha mal digerito l’annuncio della nomina a ministro degli Esteri di Luigi Di Maio  rinunciando a porre il proprio veto solo dopo aver avuto la rassicurazione che, come capitava con il precedente titolare della Farnesina, Enzo Moavero, a svolgere il ruolo di vero titolare della politica estera italiana sarebbe stato direttamente il Presidente del Consiglio. Non si sa se questa indiscrezione che ha fatto capolino tra le pieghe dei giornali sia vera. Assolutamente certo, invece, è che la Presidente designata della Bce Christine Lagarde, nel corso del suo intervento di presentazione alla Commissione Problemi Economici e Monetari del Parlamento Ue, ha espresso il proprio placet per il nuovo Ministro dell’Economia e Finanze, l’europarlamentare del Pd, Roberto Gualtieri. E lo ha fatto prima ancora che Giuseppe Conte salisse al Quirinale per sciogliere la riserva e presentare al Presidente della Repubblica la lista dei ministri.

Questo significa che il governo Conte-bis è nato con il beneplacito delle massime autorità europee o che queste ultime hanno interferito direttamente sulla formazione del nuovo esecutivo italiano? L’interrogativo è di lana caprina. Perché basta guardare l’andamento dello spread per avere la conferma certa e definitiva che il governo nato dall’alleanza innaturale tra M5S e Pd ha impresso sulla propria fronte il marchio dei massimi poteri della Ue. Nel 2011, quando il debito pubblico italiano aveva trecento miliardi in meno di quello di adesso, lo spread schizzò oltre i cinquecento punti per espellere Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi. Oggi che il debito è decisamente superiore e gli indicatori economici sono tutti negativi, lo spread scende sotto i 150 punti a dimostrazione che i mercati si muovono secondo gli interessi e le volontà di chi detiene il potere politico nella Ue.

Ma il governo Conte-bis non risulta eterodiretto solo dall’asse franco-tedesco. Accanto al marchio dei poteri forti europei c’è anche quello del Vaticano di Papa Francesco, che ha lanciato la sua crociata contro i sovranisti identitari scambiandoli per i nuovi Albigiesi e ne chiede lo sterminio ripetendo che “Dio riconoscerà i suoi”. Sulla fronte di “Giuseppi”, infine, c’è spazio anche per un marchio molto più piccolo, quello dell’Amministrazione Usa. Ma è un marchio che conta poco. Perché tra Trump e Dipartimento di Stato fanno a gara a chi capisce di meno delle vicende europee ed italiane. E da buoni italiani Conte ed gli uomini del Pd (quelli del M5S non contano) riconoscono perfettamente i propri padroni e sanno che il capo della loro catena non è tenuto negli Usa ma tra Parigi e Berlino.

Il governo che nasce, dunque, è un governo servo. Il ché non stupisce o scandalizza più di tanto. Ma chiarisce da che parte stare. Se con i padroni stranieri o con gli italiani da tornare ad affrancare dal solito servaggio!