L'Opinione delle Libertà | Arturo Diaconale - Part 20


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Redazione9 Maggio 2019

Il sospetto, dicevano i gesuiti, è l’anticamera della verità. Ma da tempo, ormai fin troppo lungo, in Italia è diventato lo strumento per colpire e possibilmente eliminare i propri avversari politici. Contestare questa aberrazione è politicamente scorretto. Il giustizialismo è diventato egemone. E se si tenta sommessamente di ricordare che nella nostra Costituzione è stato fissato il principio d’innocenza per chi è accusato di un qualche reato fino a sentenza di colpevolezza passata in giudicato, si viene irrisi o marginalizzati in quanto garantisti non al passo con i tempi.

Ma questi tempi in cui il sospetto è un’arma letale grazie all’azione combinata delle leggi sbagliate, delle strumentalizzazioni politiche e del conformismo ottuso e mascalzonesco dei media, non sono l’alba di una nuova civiltà ma la fine rovinosa di un processo di libertà dei cittadini che viene da lontano e che ha avuto una grande accelerazione con l’avvento della democrazia repubblicana.

Il giustizialismo egemone sta provocando la progressiva trasformazione del sistema di democrazia in un nuovo e più inquietante totalitarismo. Il tutto non solo sotto la spinta di pochi visionari nostalgici di un giacobinismo antiquato padre di tutti i totalitarismi degli ultimi due secoli ma, soprattutto, grazie alla viltà di gruppi di potere e dei loro canali d’informazione pronti a favorire il nuovo arrembante fascismo pur di tutelare i propri interessi finanziari e commerciali.

Negli anni del regime mussoliniano, arrivato al potere grazie alla viltà proprio degli antenati di questi gruppi di potere, solo pochi irriducibili amanti delle libertà ebbero il coraggio di opporsi al conformismo egemone di quegli anni.

Oggi bisogna “non mollare” come allora. Senza aver paura di contrastare con ogni mezzo, anche quelli più modesti e ridotti, i reazionari giustizialisti convinti di avere il potere in mano e sicuri di poterlo usare a proprio piacimento (l’esempio del tentativo di assassinio di Radio Radicale è illuminante).

Non molliamo!

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Redazione8 Maggio 2019

Matteo Salvini tocca oggi con mano, come San Tommaso, la totale inaffidabilità del proprio alleato di governo. Che lo ha sostenuto sul caso “Diciotti” dopo aver considerato che andare alla crisi di governo sulla questione dell’immigrazione avrebbe fatto un enorme favore al leader della Lega. Ma che ha rispolverato il giustizialismo delle origini e lo ha indirizzato contro il proprio ingombrante alleato di governo nel tentativo di ribaltare i sondaggi che danno il Movimento Cinque Stelle penalizzato alle prossime elezioni europee. La politica, si sa da Svetonio e Machiavelli, è cinica ed utilitaristica. Ma c’è un limite alla strumentalità. E questo limite è stato abbondantemente superato da Luigi Di Maio e dal gruppo dirigente grillino ossessionato dal timore di perdere dieci punti alle Europee e di venire successivamente contestati duramente da Davide Casaleggio e dai propri militanti imbesuiti da Rousseau.

Dalla propaganda grillina, affiancata per demenza senile da quella di una sinistra incapace di capire che attaccando il leader della Lega il M5S svuota il bacino elettorale del Partito Democratico, Matteo Salvini è stato prima bollato come un erede di Benito Mussolini ed ora, dopo il caso Siri e l’ennesima Tangentopoli lombarda, come il capo di un partito di corrotti e di delinquenti comuni.

Insomma, ce ne sarebbe a sufficienza per mandare all’aria il patto ed aprire la crisi del governo. Tanto più che mancano appena due settimane e mezzo alla data delle elezioni europee. E solo ribaltando il tavolo con gli alleati inaffidabili Salvini può sperare di invertire per tempo il calo di consensi che i sondaggi incominciano ad attribuire al suo partito a causa dell’eccessiva arrendevolezza nei confronti della paranoia strumentale ed utilitaristica di Luigi Di Maio e compagnia.

Fino ad ora l’appuntamento con il voto ha giustificato la prudenza salviniana. Ma gli incendi dei pozzi petroliferi si spengono facendo detonare grandi quantità di esplosivo. E se Salvini non vuole subire fino in fondo lo stesso processo di criminalizzazione toccato a suo tempo a Silvio Berlusconi ed in precedenza a Bettino Craxi ed a tutti i leader democristiani del secondo dopoguerra, non ha altra strada che dare fuoco alle polveri.

E dopo? In politica c’è sempre un dopo. Anche sotto forma di governo tecnico destinato a preparare le elezioni anticipate in autunno o nell’anno prossimo!

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Redazione7 Maggio 2019

Se l’inaugurazione del Salone del Libro di Torino non cadesse nella fase conclusiva della campagna elettorale, non ci sarebbe alcuna polemica sulla partecipazione all’evento di una casa editrice che oltre ad essere vicina a CasaPound pubblica un libro contenente una intervista a Matteo Salvini.

L’ondata di sdegno, condanna e esecrazione antifascista nei confronti di Altaforte, la casa editrice colpevole di concorso esterno in fascismo salviniano, ha una radice elettoralistica così marcata ed evidente che ogni discussione in merito alla vicenda appare non solo inutile ma anche ridicola.

Depurata della sua bassa strumentalità elettoralistica, però, la polemica si presta ad alcune considerazioni generali che sembrano sfuggire completamente a chi l’ha sollevata non solo per dare risonanza pubblicitaria all’edizione attuale del Salone del Libro, ma anche nella convinzione di compiere un servizio alla democrazia nata dalla Resistenza.

La vicenda, infatti, costituisce la conferma che negli oltre settant’anni del secondo dopoguerra l’antifascismo è stato sempre il fattore dominante delle campagne di criminalizzazione condotte dalle sinistre nei confronti dei propri avversari politici. Il primo a diventare il bersaglio della criminalizzazione all’insegna dell’antifascismo è stato Alcide De Gasperi alle elezioni del ’48. Poi è toccato a Mario Scelba, a Fernando Tambroni e, via via, a tutti i massimi dirigenti che avevano il compito di guidare la Democrazia Cristiana nelle campagne elettorali degli anni successivi. Poi, il processo di criminalizzazione ha riguardato con inusitata virulenza Bettino Craxi, diventato a tutti gli effetti un Benito Craxi affetto da social-fascismo soprattutto nel momento in cui la sinistra comunista entrava in crisi con il suo protettore e Stato-guida sovietico. E successivamente, la rappresentazione dell’Uomo Nero oggettivamente criminale in quanto espressione del fascismo risorgente, è spettata per vent’anni di seguito a Silvio Berlusconi.

Ora, senza considerare che in tutti i lunghi decenni del dopoguerra i presunti criminali neo-fascisti non hanno mai attentato alla democrazia repubblicana, l’accusa di voler tradire la Costituzione nata dalla Resistenza viene rivolta al leader della Lega Matteo Salvini nella speranza non solo di frenarne l’ascesa politica ma anche di trasformarlo nel pretesto di un’alleanza tra Partito Democratico e M5S in grado di costruire una unità della sinistra mai esistita in passato.

Chi si è affannato e si affanna ad usare politicamente il valore dell’antifascismo non si rende conto che in questo modo declassa e cancella il valore stesso. Lo trasforma in uno strumento di parte, oltretutto sempre più minoritaria. E rende sempre più difficile alla stragrande maggioranza del Paese di riconoscersi in uno strumento di perenne ed odiosa discriminazione nei confronti del proprio avversario politico del momento.

L’antifascismo masochista! Anche questa si doveva vedere!

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Redazione6 Maggio 2019

Sarebbe opportuno che qualcuno informasse Matteo Salvini che il detto mussoliniano dei “tanti nemici, tanto onore” nella vita politica (ma anche nella vita normale) non produce altri risultati oltre quello di finire in un isolamento che nella peggiore delle ipotesi porta a Piazzale Loreto e, nella migliore, nella marginalità e nel dimenticatoio.

Questa informazione ha sempre un valore alto. Che diventa addirittura altissimo quando il vento del consenso e del successo alza di più le vele di chi pensa di poter sfidare il mondo intero senza subire conseguenze di sorta. Oggi Salvini è sulla cresta dell’onda. E mai come oggi è necessario ricordargli che poter contare solo su nemici irriducibili porta presto o tardi alla sconfitta. Un po’ come è capitato a Matteo Renzi passato dall’altare del quaranta per cento alle elezioni europee e della convinzione di diventare il leader incontrastato del Paese alla polvere della sconfitta al referendum, alle elezioni e dentro il Partito Democratico.

Oggi, infatti, Salvini ha raggiunto il massimo livello del proprio consenso. Ma deve incominciare a registrare che i suoi avversari si sono moltiplicati a dismisura. All’atto della formazione giallo-verde poteva contare non solo sul sostegno dell’alleato del Movimento Cinque Stelle, ma anche sulla solidarietà niente affatto nascosta delle altre forze del vecchio centrodestra convinte che non mettere troppi bastoni tra le ruote al leader della Lega avrebbe potuto far ricostruire più facilmente l’alleanza delle forze moderate non solo a livello locale ma anche a livello nazionale.

A quasi un anno di distanza, Salvini ha dalla sua i sondaggi che pronosticano per il suo partito un quasi raddoppio dei voti ma sul piatto opposto della bilancia deve prendere atto che i suoi nemici si sono moltiplicati e che la sua persona è diventata il bersaglio unico di uno schieramento di forze che va dai centri sociali passando per M5S e Pd fino a Forza Italia ed a Fratelli d’Italia.

Questo assedio ha anche aspetti paranoici. Ma la follia di alcuni suoi nemici non esclude la loro pericolosità. Alla lunga l’isolamento fa male. Per questo è consigliabile che Salvini recuperi almeno dopo il 26 maggio qualche amico. E questi amici non possono sicuramente essere quelli capeggiati da Luigino Di Maio!

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Redazione3 Maggio 2019

Fino ad ora la questione morale è sempre stata una coltre di ipocrisia che nascondeva una precisa esigenza politica. Enrico Berlinguer, che non aveva avvertito alcun fremito etico quando si era trattato di realizzare il compromesso storico con la Democrazia Cristiana, si aggrappò alla questione morale dopo che l’accordo di potere con i democristiani era fallito ed il Pci aveva bisogno di trovare una nobile motivazione per il suo ritorno all’opposizione.

Ma con il caso Siri la questione morale perde completamente la sua mascheratura di ipocrisia e diventa ufficialmente una questione di opportunità politica a beneficio di chi l’ha sollevata. Il Movimento Cinque Stelle aveva bisogno di una testa mozzata da esibire al proprio elettorato per risvegliare la sua natura giustizialista e recuperare il maggior numero di voti rispetto alle previsioni negative del 26 maggio. L’ha ottenuta grazie al comportamento del Presidente del Consiglio che al principio costituzionale della presunzione d’innocenza ha anteposto l’esigenza tutta politica di Luigi Di Maio. Ed ora deve solo sperare che lo schiaffo affibbiato a Matteo Salvini ed alla Lega riesca effettivamente a galvanizzare i propri elettori ed a mantenere in dimensioni accettabili la prevista sconfitta alle prossime elezioni europee.

Se la testa di Siri graziosamente consegnata da Giuseppe Conte al popolo grillino otterrà lo scopo voluto, il Governo giallo-verde potrà andare avanti a dispetto della irritazione della Lega. Ma se per caso l’ultima manifestazione del giustizialismo strumentale camuffato da questione morale non avrà frenato adeguatamente il declino pentastellato, la sorte del Governo finirà nelle mani di un Salvini a cui proprio il caso Siri non può non aver insegnato che il prezzo pagato all’alleanza con i Cinque Stelle non è più proporzionale alla sua utilità politica.

Grazie alla partecipazione al Governo, la Lega sembra aver ottenuto un quasi raddoppio dei propri voti. Ma con il caso Siri la parabola rischia di diventare discendente. E questa discesa non solo cancella l’ambizione di trasformare la Lega nel partito egemone del centrodestra e nella forza di maggioranza relativa del Paese, ma costringe Salvini a considerare che il ruolo della Lega è di essere il motore portante di un nuovo centrodestra allargato ed alternativo al Movimento Cinque Stelle ed alla sinistra più oltranzista e nostalgica.

L’opportunità politica dei grillini, quindi, non ha nulla di etico ma è anche di corto respiro politico. Dopo il 26 maggio rischia di rivelarsi un atto di autolesionismo.

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Redazione2 Maggio 2019

La proposta di unire Cgil, Cisl e Uil in un sindacato unico lanciata da Maurizio Landini in occasione della festa del primo maggio non rappresenta alcuna novità. Al contrario, non solo ripropone un progetto antico che ha percorso l’intera storia della seconda metà del secolo scorso e che è costantemente naufragato a causa della vocazione egemonica della Cgil, ma costituisce la drammatica conferma della incapacità dei sindacati confederali di liberarsi degli schematismi statici del passato per affrontare in maniera nuova ed adeguata le sfide del presente e del futuro.

L’idea di un sindacato unico che cancella e marginalizza qualsiasi altra forma di organizzazione dei lavoratori è figlia della vetusta concezione dello Stato organico strutturato sul modello totalitario comunista. Quello fondato sul doppio pilastro del sindacato unico e del partito unico, cioè della risposta autoritaria elaborata nella prima metà del secolo scorso dai teorici dello Stato comunista (e fascista) alla sfida della difficile gestione della modernità. Quella concezione è miseramente fallita. Ma ha lasciato una eredità culturale che come un fiume carsico rispunta ogni volta che la sfida della modernità tumultuosa ed incontrollabile si ripresenta e provoca lunghe fasi di crisi. Landini è pervaso di questo tipo di cultura e si comporta di conseguenza, rispolverando non l’idea dello Stato organico comunista, che è stata cancellata dalla storia, ma almeno quello di un sindacato unico egemonizzato dalla Cgil che fronteggi la crisi in atto nel segno e con la strategia della conflittualità permanente.

Ma basta la conflittualità tradizionale nei confronti del cosiddetto padronato a fronteggiare gli effetti devastanti di una innovazione incontrollata dovuta ai fenomeni della rivoluzione tecnologica e della globalizzazione? La risposta è, ovviamente, negativa. Landini vuole combattere la guerra moderna con le concezioni e le armi delle guerre antiche perdendo di vista come nei periodi delle moderne crisi economiche l’interesse dei lavoratori a mantenere la propria occupazione finisce inevitabilmente col coincidere con quello dei datori di lavoro a salvare le proprie imprese.

La conflittualità va dunque bene nelle fasi di crescita, quando bisogna far conquistare ai lavoratori una parte dei profitti. Ma deve lasciare il posto alla collaborazione quando la posta in palio non sono i maggiori diritti o gli aumenti salariali, ma la conservazione dei posti di lavoro con la tenuta delle imprese. La ricetta di Landini, comunque, ha un pregio. È una forma di archeologia sindacale. E come tale appare destinata al museo e non alla realtà presente del mondo del lavoro.

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Redazione30 Aprile 2019

Ciò che più colpisce nella campagna elettorale in corso è l’assoluta marginalità dei due principali partiti di opposizione. Partito Democratico e Forza Italia corrono ma è come se non ci fossero. I temi dell’agenda politica vengono fissati da Lega e Movimento Cinque Stelle e democratici e forzisti seguono passivamente come l’intendenza di Napoleone. Per Forza Italia questo comportamento era stato ampiamente pronosticato. La scelta di puntare ancora una volta su Silvio Berlusconi non poteva non rendere il partito assolutamente dipendente dai comportamenti del suo fondatore ed unico ed indispensabile motore. E poiché per ragioni essenzialmente fisiche i comportamenti del Cavaliere sono ridotti e limitati, Forza Italia appare ridotta e limitata. Cioè incapace di giocare un ruolo non di sostituzione ma almeno di affiancamento al suo leader. È vero che questa situazione sembra destinata ad innescare all’interno del partito una grande discussione dopo il voto del 26 maggio. Ma in attesa di un qualche segnale di vitalità, Forza Italia risulta messa agli angoli della scena politica nazionale con conseguenze tutte da verificare al momento dell’appuntamento elettorale.

Ciò che era previsto per il partito di Berlusconi, non era affatto preventivato per quello di Nicola Zingaretti . L’arrivo del nuovo segretario, legittimato da una investitura quasi plebiscitare alle primarie, sembrava destinato ad imprimere una seria spinta propulsiva al maggiore partito della sinistra ed alla principale forza d’opposizione. La propulsione, però, non c’è. Sarà colpa della vicenda della sanità in Umbria o forse della sostanziale astensione dalla campagna elettorale della componente renziana, sta di fatto che l’“effetto Zingaretti” non si sta facendo sentire. Il Pd arranca e si lascia addirittura scavalcare dal Movimento Cinque Stelle anche sulle questioni che fanno parte integrante della sua identità. Quanto successo in occasione del 25 aprile è illuminante. I grillini si sono impossessati del tema dell’antifascismo per attaccare in chiave elettoralistica Matteo Salvini ed a Zingaretti ed a tutta la sinistra non è rimasto altro che mettersi al seguito senza un briciolo di autonomia e capacità d’innovazione.

Malgrado queste marginalità, i sondaggi non sembrano penalizzare troppo Fi e Pd. Ma non sempre i sondaggi hanno ragione. E questa volta potrebbero avere torto marcio!

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Redazione29 Aprile 2019

Nessuno si sogna di discutere sulla necessità della conversione decisa dal Presidente del Consiglio nel guazzabuglio libico. Continuare a sostenere al-Sarraj non era altro che una passiva prosecuzione della linea imposta a suo tempo dagli Stati Uniti di Barack Obama; linea che, dopo aver provocato le primavere arabe ed il loro fallimento, aveva spinto il nostro Paese ad appiattirsi nella vicenda libica su un governo che veniva sostenuto da Turchia, Qatar e Fratelli Musulmani chiaramente orientati a portare avanti i loro interessi nel Mediterraneo piuttosto che quelli italiani.

Ora che il successore di Obama, Donald Trump, si è deciso a ribaltare le scelte del suo predecessore anche sul teatro libico dopo quello del Medio Oriente, cioè a puntare sul fronte sunnita di Arabia Saudita, Egitto ed Emirati in contrapposizione ad Iran ed in concorso con Israele, Francia e Russia, appare evidente che il nostro Paese debba assumere una posizione quanto meno neutrale e terza nei confronti del belligeranti libici al-Sarraj e Khalifa Haftar. Non per servile appiattimento nei confronti dell’inquilino della Casa Bianca, ma per un interesse nazionale che si difende meglio schierandosi dalla parte del tradizionale alleato americano piuttosto che dalla parte dei Fratelli Musulmani sostenuti da Turchia e Qatar e foraggiati dal regime komeinista iraniano.

Ciò di cui sarebbe invece indispensabile discutere ed approfondire è il modo con cui si è verificata la sterzata italiana su quel tema di politica estera che appare prioritario e vitale per il futuro del Paese. Non risulta che la questione sia stata discussa in una qualche riunione del Consiglio dei Ministri. In Parlamento, poi, a nessun componente del Governo è mai passato per la mente di aprire un qualsiasi dibattito sulla linea da tenere o da cambiare sulla Libia. Tra Giuseppe Conte ed il ministro degli Affari Esteri, Enzo Moavero Milanesi, non sembra esserci stato alcun confronto sulla opportunità di diventare terzi rispetto ad al-Sarraj e Haftar. Per non parlare infine di una qualsiasi interlocuzione con i vicepresidenti del Consiglio, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, che sono troppo impegnati a polemizzare tra di loro in campagna elettorale per esaminare un problema serio e complesso come quello libico.

Come è avvenuta, allora, la conversione? In apparenza per folgorazione trumpiana mentre Conte si recava in Cina. Ma se questa è la risposta non si può non rilevare che, pur nella giustezza della decisione, il Presidente del Consiglio non ha alcun titolo per compiere da solo una scelta del genere.

Qualcuno spieghi a Conte che in Italia non vige né il presidenzialismo e neppure il premierato. In un sistema parlamentare e con un governo di coalizione, la discussione preventiva su scelte fondamentali è la regola. A meno che chi non la rispetta si sia convinto di non stare a Palazzo Chigi ma a Palazzo Venezia!

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Redazione26 Aprile 2019

Luigi Di Maio vuole lo scalpo del sottosegretario Siri da esibire agli elettori del 26 maggio per dimostrare che il Movimento cinque stelle rimane fedele alla sua natura giustizialista originaria. In questo modo, il capo politico dei grillini pensa di frenare l’emorragia di voti del proprio elettorato e non far scendere il proprio partito sotto la soglia del venti per cento.

Può darsi che questo calcolo sia giusto. In fondo, l’unico fattore identitario del M5s è il giustizialismo, quello su cui si ritrovano contemporaneamente sia la componente governista che quella movimentista. Ed è logico che, alla vigilia di una verifica elettorale di grande rilievo, Di Maio giochi questa carta con la massima insistenza nella ragionevole speranza di rilanciare, in qualche modo, il proprio movimento.

Ma la campagna per lo scalpo del leghista Siri non ha come conseguenza solo quella di creare una frattura personale con Matteo Salvini, frattura che Di Maio e lo stesso Salvini pensano di poter colmare con la solita cena in pizzeria, ma anche quella di investire l’intera Lega con l’onda giustizialista provocata per ragioni elettorali.

I dirigenti grillini non si limitano ad accusare Siri per presunti legami con faccendieri a loro volta collegati con ambienti mafiosi. Sollevano la questione morale nei confronti dell’intera Lega, sostenendo che i legami tra Siri ed Arata si estendono al sottosegretario Giorgetti e sollevano, in generale, il rapporto che si è venuto a creare tra il partito di Salvini con i gruppi dirigenti meridionali recentemente confluiti nelle fila del Carroccio. L’offensiva grillina, in sostanza, parte da Siri per allargarsi all’intera Lega, di fatto, accusata di essere diventata contigua alle organizzazioni mafiose presenti in Sicilia e nel Meridione.

Una accusa del genere, ovviamente, non può essere cancellata con una cena in pizzeria. La questione morale è un’arma atomica che va maneggiata con estrema attenzione, perché produce effetti devastanti e persistenti nel tempo. Usarla come stanno facendo Di Maio ed i dirigenti grillini, accendendo il sospetto di contiguità della Lega alla mafia, rende la spaccatura nel governo irreversibile. Che il governo possa reggere anche dopo il voto del 26 maggio è possibile. Ma che i grillini lo stiano uccidendo adesso è altrettanto incontrovertibile.

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Redazione24 Aprile 2019

Alla fine è arrivato anche Silvio Berlusconi a trasformare il 25 aprile in un’occasione da campagna elettorale. E così l’ultima palata di discredito su una data che dovrebbe essere il simbolo di una storia condivisa, ma che rimane l’esempio dell’impossibilità di uniformare e omologare le memorie, è stata gettata trasformando un anniversario in un pretesto elettoralistico.

Per la verità dall’inizio degli anni Sessanta in poi, cioè dall’avvento del centrosinistra e della creazione di una vulgata resistenziale ben presto trasformata in verità di regime, la data del 25 aprile è sempre stata una occasione di strumentalizzazione e di propaganda politica. Le infinite facce della sinistra hanno sempre sfruttato quella vulgata per riproporsi all’opinione pubblica come le sole componenti di quella aristocrazia repubblicana legittimata a guidare il Paese approdato alla democrazia grazie alla Resistenza. Da parte loro, gli eredi degli sconfitti della Seconda guerra mondiale non hanno mai mancato di sfruttare la marea retorica sollevata dalle sinistre per risvegliare le memorie nascoste di una guerra civile interminabile e per giustificare e legittimare la loro presenza nel panorama politico del Paese. A cercare di rompere questa spirale fu lo stesso Berlusconi dopo la tragedia del terremoto abruzzese del 2009 con il discorso pronunciato di fronte alle rovine di Onna in cui tentò di trasformare la data della divisione in una data di unificazione delle storie e delle coscienze. Sappiamo tutti, però, come il tentativo del Cavaliere naufragò sotto i colpi di nuove e più feroci strumentalizzazioni.

Mai come ora, però, la speculazione elettoralistica ha svuotato di qualsiasi significato il 25 aprile presentando agli occhi immemori delle nuove generazioni un anniversario che non ha altro significato oltre il pretesto per la campagna elettorale. Con Luigi Di Maio che trasforma la Resistenza nello strumento per rubare voti ad un Partito Democratico in disarmo e con Matteo Salvini che compie una operazione analoga per tenere stretti i voti succhiati al fronte moderato del vecchio centrodestra.

In questo modo la memoria non solo non è condivisa ma è anche e soprattutto svilita. Ed un paese, la cui identità è sempre stata formata dalle passioni e dalle memorie diverse, perde il fattore fondante del proprio futuro.