L'Opinione delle Libertà | Arturo Diaconale - Part 9


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Redazione29 Ottobre 2019

L’ipotesi di elezioni politiche nella primavera del prossimo anno non è più fantasiosa come appariva solo qualche settimana fa. A renderla concreta hanno contribuito le dimensioni del successo del centro destra e della sconfitta dei Cinque Stelle in Umbria. Tanto che ora tutti incominciano a pensare che se dopo l’Umbria rossa dovesse cadere anche l’Emilia-Romagna rossissima, il voto politico anticipato sarebbe l’ultimo tentativo del Pd di frenare l’emorragia di consensi che minaccia di dissanguarlo e la mossa disperata del M5S per impedire la propria totale dissoluzione.

Naturalmente l’ipotesi viene combattuta sia da molti dirigenti del Pd che da una parte dei vertici grillini. Franceschini e Bettini da un lato e Grillo e Fico dall’altro si battono non tanto per la prosecuzione dell’esperimento di alleanza tra i due partiti in nome di una futura nuova sinistra unita quanto per la conservazione più a lungo possibile della coalizione governativa all’insegna del principio andreottiano secondo cui tirare a campare e restare al potere è sempre meglio che tirare le cuoia andando all’opposizione. Con loro, per ovvi motivi, è schierato anche il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che ufficialmente non ha un partito alle spalle ma che materialmente sembra essere l’espressione, come emerge dal caso sollevato dal Financial Times, di precisi interessi finanziari della curia vaticana di osservanza bergogliana. Non è detto che la protezione di cui Conte gode all’interno della Chiesa sia un punto di forza o possa diventare un elemento di debolezza del Presidente del Consiglio. Ma la consapevolezza che il Premier non è solo ma rappresenta, sia pure indirettamente e fino ad ora segretamente, un potere così incisivo in Italia come il Vaticano può favorire la resistenza di chi nel Pd e nel M5S vuole evitare il voto politico anticipato. Tanto più che contrari all’ipotesi di elezioni nella prossima primavera sono anche Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, uniti dalla comune necessità di prendere tempo per avere la possibilità l’uno di crescere e l’altro di resistere evitando un voto rovinoso per entrambi.

Ma interessi convergenti di forze politiche così disparate possono trovare un punto di coagulo per scongiurare il ricorso alle elezioni nel caso l’alleanza di governo venisse sconfitta anche in Emilia-Romagna? L’interrogativo trasforma il prossimo voto regionale nella battaglia decisiva per la sorte della legislatura ed il futuro del paese.

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Redazione28 Ottobre 2019

Nessuno metteva in discussione che il voto umbro avrebbe portato alla vittoria del centro destra. Ma a nessuno sarebbe mai venuto in mente che il trionfo di Donatella Tesei avrebbe avuto le dimensioni raggiunte (venti punti di vantaggio sul competitore Vincenzo Bianconi sostenuto dall’alleanza Pd-M5S) e, soprattutto, che l’esperimento della alleanza tra Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle avrebbe subito una sconfessione così pesante. Non tanto per il partito di Nicola Zingaretti che può giustificare la flessione con la scissione di Matteo Renzi e con il disimpegno di Carlo Calenda. Ma soprattutto per il movimento guidato da Luigi Di Maio che ha dimezzato letteralmente i propri voti subendo una disfatta che si giustifica solo con la disaffezione dei propri elettori nei confronti di un partito disposto ad allearsi con i propri nemici storici.

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte sostiene che il voto umbro non deve interrompere il percorso verso la formazione di una alleanza organica, duratura e presente a livello nazionale e locale tra le forze che hanno dato vita al proprio governo. Ed è comprensibile che lo faccia. Se non difendesse la formula grazie a cui è rimasto a Palazzo Chigi non avrebbe altra strada che uscire dalla scena politica e ritornare alla propria professione. Ma i dirigenti del Movimento Cinque Stelle si trovano in una posizione diversa da quella del Premier e debbono necessariamente porsi l’interrogativo se la prosecuzione dell’esperimento caro a Conte non comporti automaticamente la dissoluzione, nel corso dei prossimi tre anni, del loro partito.

In questa luce tra gli effetti politici del risultato delle elezioni umbre non c’è solo il rilancio di Salvini e della Lega, il successo di Fratelli d’Italia e la difficile tenuta di Forza Italia per quanto riguarda il centro destra ma anche e soprattutto, per quanto concerne la sinistra, la separazione netta degli interessi del Presidente del Consiglio e di quelli del Movimento Cinque Stelle. Fino ad ora sembravano coincidere, al punto che Conte veniva addirittura candidato a diventare il leader del mondo grillino in sostituzione di Luigi Di Maio con la benedizione di Grillo e di Fico. Adesso, però, la coincidenza di interessi è saltata. Quello del Premier è diventato alternativo a quello del M5S. Ed anche se il conflitto non può portare immediatamente alla fine dell’attuale alleanza di governo, apre una frattura tra Conte ed i grillini che può sfociare solo nel sacrificio del primo in nome della sopravvivenza dei secondi. Insomma, per Conte è suonata la campanella dell’ultimo giro!

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Redazione25 Ottobre 2019

“A Milano – ha affermato il Procuratore Capo della Procura milanese Francesco Greco – le aziende investono più in tangenti che in innovazione”. Al punto, ha aggiunto il magistrato, che gli uffici giudiziari sono intasati dalle inchieste su questo fenomeno corruttivo.

Le affermazioni di Greco suggeriscono una fantasia niente affatto irrealistica. Che succederebbe se il Procuratore di Milano decidesse di combattere il macrofenomeno corruttivo delle tangenti sostenendo che questo tipo di reato può essere considerato di stampo mafioso ed applicando la legislazione antimafia per riuscire più efficacemente a stroncarlo? Quanto è avvenuto durante l’inchiesta su Mafia Capitale può essere una risposta possibile: una serie di arresti eccellenti (che nel caso di Milano riguarderebbero non Buzzi e Carminati e qualche politico minore ma manager di multinazionali e personaggi di massimo livello) ed una campagna mediatica all’insegna della lotta alla Mafia accusata di aver conquistato la Capitale Morale ed Economica del paese. Magari questa campagna mediatica non arriverebbe, come è avvenuto a Roma, ad accusare di concorso in associazione mafiosa gli avvocati degli imputati. A Milano gli studi legali hanno una capacità di condizionare i media settentrionali più forte di quelli capitolini. Ma il risultato sarebbe praticamente lo stesso: la conferma di quanto Greco già sa, cioè l’esistenza di una forte corruzione in cambio di uno sfregio permanente all’immagine della città con un conseguente discredito internazionale e con una altrettanto conseguente regressione politica ed economica della comunità più dinamica del paese.

Questa fantasia, suggerita dalla sentenza della Cassazione che ha di fatto negato che la corruzione sia un fenomeno mafiosa da contrastare con la legislazione emergenziale antimafia, è destinata a rimanere tale. La linea della palma di Leonardo Sciascia ha da tempo superato la Linea Gotica ed anche la barriera alpina. Ma è difficile che a Milano possa essere riservata la sorte toccata a Roma divenuta di colpo la Capitale mafiosa di un paese automaticamente mafioso. Ciò non toglie, però, che il pensiero giustizialista che percorre e sconvolge da almeno due decenni la società italiana rimanga sempre più convinto che la corruzione costituisca una emergenza da combattere con le legislazioni emergenziali usate prima contro il terrorismo degli anni ’70 e successivamente contro la mafia stragista dei corleonesi.

Certo, le legislazioni emergenziali garantiscono risultati più rapidi, più clamorosi e massima visibilità per chi le gestisce. Ma, proprio perché emergenziali, dovrebbero essere un vulnus solo temporaneo dello stato di diritto. Trasformarle in permanenti significa cancellare lo stato di diritto. Con tutte le relative conseguenze.

 

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Redazione24 Ottobre 2019

Davide Casaleggio ed i massimi dirigenti del Movimento Cinque Stelle sono convinti che in futuro il lavoro manuale che si svolge nelle fabbriche sarà sostituito da robot digitalizzati. In vista di questo radioso avvenire che libererà l’uomo dalla fatica fisica e gli consentirà di dedicarsi ad un sano ozio pagato dall’assistenza dello stato, i massimi responsabili grillini hanno pensato bene di accelerare i tempi almeno per quanto riguarda l’Ilva di Taranto ed i suoi quindicimila lavoratori. Così, con il tacito sostegno dei rappresentati del Partito Democratico, ex partito dei lavoratori, di Leu, partito fedele alla lotta di classe ed al potere operaio e di Italia Viva che di queste vicende non si occupa considerandole “de minimis” , hanno presentato e fatto approvare dal Consiglio dei Ministri un provvedimento che cancella l’immunità per i vertici dell’Ilva relativa agli atti del passato e spiana la strada alla chiusura dello stabilimento visto che nessun manager serio può pensare di gestire una azienda con la certezza di venire incriminato per non aver rispettato in passato norme a tutela
dell’ambiente adottate successivamente.

Chi pensava che il Movimento Cinque Stelle avesse ormai rinunciato alla promessa fatta in campagna elettorale di chiudere l’Ilva deve ammettere di aver compiuto un errore macroscopico. I grillini mantengono comunque le loro promesse. Ed anche se lo fanno seguendo percorsi tortuosi come quello escogitato ed attuato in questa circostanza, non rinunciano mai a raggiungere il traguardo prefissato.

Ciò che colpisce della vicenda, però, non è la testarda determinazione del Movimento CInque Stelle ma la totale passività mostrata dai partiti della sinistra tradizionale. Una volta si battevano per consentire alla classe operaia di andare in paradiso. Oggi accettano che la stessa classe operaia vada in cassa integrazione e perda il proprio posto di lavoro. In nome della tutela della salute considerata prioritaria rispetto a quella del lavoro? Niente affatto. In nome solo dell’esigenza di
non creare difficoltà ad un governo che si divide su tutto tranne che sulla volontà di colpire in qualche modo i cittadini: con le tasse e con la lotta non all’evasione ma al lavoro dei poveri cristi.

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Redazione23 Ottobre 2019

I grandi media nazionali hanno messo la sordina alle elezioni che si celebrano in Umbria domenica prossima. La grande enfasi che giornali e televisioni politicamente corrette avevano dato all’alleanza tra Pd e M5S stipulata in quella regione all’insegna del fronte comune contro il pericolo Salvini, si è progressivamente trasformata in indifferenza e sottovalutazione. In un primo momento l’Umbria avrebbe dovuto segnare l’avvento dell’alleanza strategica tra i due partiti che avevano dato vita al governo nazionale giallo-rosso e l’avvio di un processo politico che avrebbe dovuto portare ad un grande fronte unitario tra la sinistra tradizionale del Partito Democratico e quella giustizialista del Movimento Cinque Stelle. Adesso, invece, le trombe che avevano annunciato l’avvento di eventi così radiosi non emettono più suoni di sorta. La linea da seguire è quella dettata dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che ha negato ogni valore politico al voto umbro sostenendo che il numero degli elettori di questa regione è inferiore a quello della provincia di Lecce. E che, per questa ragione, ha escluso ogni possibile ripercussione negativa sul governo in caso di sconfitta dell’alleanza tra Pd e M5S.

Il tentativo di trasformare quello che era stato presentato come un evento epocale in una vicenda localistica marginale, nasce dalle previsioni che attribuiscono una sconfitta certa alle forze componenti del governo giallo-rosso. Il tentativo di negare il valore politico al voto umbro è chiaramente rivolto a ridurre al massimo le conseguenze negative a livello nazionale. Ma, sempre che le previsioni si traducano in realtà, è facile immaginare come nessuna sottovalutazione potrà evitare le ripercussioni che il fallimento del primo esperimento di alleanza elettorale tra Pd e M5S determinerà all’interno dei due partiti e della stessa coalizione governativa.

Nel Pd i teorici dell’intesa epocale con i grillini saranno inevitabilmente messi all’angolo da chi si è sempre schierato contro questa ipotesi. E la polemica tra gli uni e gli altri metterà le ali alla concorrenza di Italia Viva decisa a trasformare l’opposizione al movimento di Grillo e Di Maio nel suo principale tratto identitario.

Identico tsunami si verificherà all’interno del M5S mettendo in difficoltà i convertiti alla contaminazione con la sinistra tradizionale e rilanciando il ruolo dei puristi del giustizialismo identitario grillino contrario a qualsiasi alleanza strutturale con altre forze politiche.

La sordina, allora, servirà a poco. I fatti reali saranno più forti di qualsiasi cortina fumogena dei media fiancheggiatori di un governo destinato a subire comunque il colpo di un eventuale voto negativo umbro.

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Redazione22 Ottobre 2019

Il problema del governo giallo-rosso non è solo quello di un Presidente del Consiglio di un esecutivo di coalizione che invece di mediare vuole essere il protagonista principale della sua compagine di protagonisti in cerca di visibilità. È anche quello di un Movimento Cinque Stelle che conta sempre di meno nel paese e che è roso da una infinità di contrasti personali destinati inevitabilmente a provocare una esplosione devastante. Ma è soprattutto quello di un intreccio tra il protagonismo di Giuseppe Conte e le divisioni del movimento grillino.

Il Premier, infatti, che non ha un partito alle spalle, pensa di poterselo creare assumendo la guida di quella parte del M5S che soffre la leadership di Luigi Di Maio e se ne vorrebbe liberare il più rapidamente possibile sostituendola con quella di Giuseppe Conte.

Le difficoltà del governo giallo-rosso, ovviamente, non dipendono solo da Conte che cerca un partito e da mezzo M5S che cerca un diverso capo. Il Partito Democratico , in piena sindrome di superiorità morale e politica, si comporta come se fosse il partito di maggioranza relativa della coalizione pur avendo la metà dei voti dei grillini. E vestendo i panni non suoi di Lord Protettore dell’esecutivo che deve mediare, sopire e smussare non riesce ad elaborare una qualsiasi linea propria oltre quella del vecchio “tassa e spendi” che la espone alla concorrenza corsara di Matteo Renzi e della sua Italia Viva.

Ognuno di questi fattori è potenzialmente in grado di mandare a picco la coalizione di quattro litiganti guidata da un esibizionista alla ricerca di una futura leadership. Ma il più pericoloso di tutti è sicuramente quello rappresentato dal caso Conte. Che, istigato ed indirizzato da Casalino, sogna un avvenire radioso e trionfante sulla scena politica nazionale, magari nel ruolo di futuro Presidente della Repubblica. Senza però rendersi conto che da fattore più pericoloso può essere anche quello di più facile risoluzione. Basta cambiarlo prima che spacchi il MS5 ed il caso è risolto!

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Redazione21 Ottobre 2019

Tutti quegli esponenti di Forza Italia che sembravano tentati dall’idea di confluire con Matteo Renzi in odio alla destra populista e sovranista di Salvini, hanno avuto dalla gioiosa e straripante manifestazione di Piazza San Giovanni un messaggio chiaro ed inequivocabile. Loro possono pure trasmigrare a sinistra nella speranza di trovare uno strapuntino governativo o una promessa di nuova candidatura da parte di Italia Viva. Ma i voti degli elettori del fronte moderato stanno a destra, non si muovono ed, anzi, sono destinanti ad aumentare in misura direttamente proporzionale al cammino confuso ed inquietante del governo giallo-rosso. C’è stata una conversione all’estremismo sovranista e populista nell’elettorato del centro destra? Niente affatto. Il popolo che si oppone alla sinistra elitaria ed ai qualunquisti giustizialisti che si sono messi insieme solo per evitare una scontata sconfitta elettorale non ha avuto alcuna deriva estremista. È rimasto quello di sempre e si è addirittura allargato a quei settori più deboli della società italiana che si sentono abbandonati e minacciati da quella sinistra che li disprezza in nome di un elitarismo demenziale e da quei giustizialisti che li vorrebbero tutti in galera perché cercano di sopravvivere ad ogni costo. In questo popolo, secondo le definizioni cariche di pregiudizio dei media politicamente corretti, ci sono sicuramente i sovranisti ed i populisti. Ma sono rimasti e sono cresciuti i liberali, i riformisti, i popolari ed tutti quelli che non si lasciano piegare a quel pensiero unico che li vorrebbe mantenere sudditi passivi di uno stato burocratico in cui il dirigismo e l’assistenzialismo servono solo a realizzare l’egualitarismo pauperista nella società nazionale. Quei parlamentari di Forza Italia che pensano di sopravvivere politicamente compiendo una semplice trasmigrazione all’interno del Palazzo farebbero bene a capire in tutta fretta la lezione di Piazza San Giovanni. Possono andare dove meglio credono ma non saranno mai seguiti dai loro elettori che rimangono dove sono sempre più convinti di battersi per i valori di libertà contro le smanie autoritarie dei privilegiati e dei manettari paranoici.

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Redazione18 Ottobre 2019

Grande è la confusione sotto il cielo della politica estera del nostro paese ma la situazione, a dispetto di quanto diceva Mao, non è affatto eccellente. La confusione è data dall’anomalia di un governo che ha ben tre ministri degli esteri in contemporanea attività. C’è il titolare ufficiale della Farnesina, quel Luigi Di Maio che si sta impegnando a perfezionare il proprio inglese ma che avrebbe più bisogno di approfondire la geografia per svolgere al meglio la sua attività di capo della diplomazia nazionale. C’è poi il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che si è intestato il rapporto con l’Unione Europea e che non perde occasione per sottolineare come spetti a lui, e solo a lui, trattare con Merkel e Macron considerati i “padri-padroni” dell’Europa. E c’è infine il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, a stare alla prassi ed alle norme della Costituzione, non dovrebbe svolgere ruoli politici spettanti esclusivamente al governo ma che, in viaggio negli Stati Uniti, tratta con il Presidente Usa Trump sui dazi sui prodotti europei ed italiani minacciati dall’amministrazione americana.

Come si è detto tanta confusione non produce una soluzione eccellente. Per la semplice ragione che tre ministri degli esteri non fanno una sola politica estera, visto che il titolare effettivo è un apprendista privo di fondamentali, il secondo è un Premier precario privo di qualsiasi esperienza internazionale ed il terzo, Sergio Mattarella, può anche tentare di mettere le toppe alle carenze fisiologiche dei primi due ma non ha grandi precedenti storici a cui rifarsi tranne quello di Giovanni Gronchi che in piena guerra fredda si recò a Mosca per aprire ai successori di Stalin provocando solo l’inquietudine degli americani.

Il problema vero, comunque, è che alle spalle di questo anomalo trio diplomatico manca una linea di politica estera definita su tutte le grandi questioni che riguardano direttamente o indirettamente l’Italia. La ragione di questa assenza è la mancanza di un governo solido, coeso, formato da partiti che non hanno come unico collante la paura delle elezioni ma una visione comune su quale debba essere la posizione e la missione dell’Italia nel mondo. E senza governo non ci può essere politica estera. Anche se i ministri sono tre!

 

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Redazione17 Ottobre 2019

Giuseppe Conte è convinto che il prossimo futuro non riserverà ribaltoni di sorta per il suo governo. Ma la manovra inviata all’Europa è segnata dalla formula “salvo intese” su alcune misure che Movimento Cinque Stelle ed Italia Viva considerano identitarie. Ed, a dispetto dell’ottimismo ostentato dal Presidente del Consiglio, appare logico e scontato porsi l’interrogativo su quanto potrebbe succedere se queste “intese” non dovessero arrivare. Che succede, infatti, se Italia Viva insiste sulla richiesta della cancellazione di “quota cento”? E se la componente grillina continua a prendere di modificare ad ogni costo il codice penale con un decreto legge per introdurre la pena del carcere per grandi e piccoli evasori?

Conte può pure sperare di essere in grado di superare agevolmente queste difficoltà riguardanti il “salvo intese”. Se non lo facesse dovrebbe automaticamente ammettere che il suo secondo governo è affondato prima ancora di prendere il mare.

Ma l’umana comprensione per i sentimenti del Premier non possono far illudere che le tempeste all’orizzonte dell’esecutivo, favorite dalla speranza di intese ancora tutte da definire, siano totalmente inesistenti. La formula usata per varare la manovra stabilisce che la precarietà è il segno distintivo dell’attuale coalizione governativa. L’equilibrio creato attorno a questa precarietà si può rompere da un momento all’altro e, soprattutto, per uno qualsiasi di quei motivi considerati identitari dai partiti della maggioranza. Il ché pone Conte sotto la mannaia degli interessi particolari e mutevoli non tanto del Pd e della sua costola di sinistra Leu quanto del Movimento Cinque Stelle e dell’Italia Viva.

La crisi, dunque, è dietro l’angolo. Può avvenire prima di Natale a seguito di un risultato particolarmente negativo per il fronte giallo-rosso in Umbria. Ma può anche slittare a Pasqua se il partito renziano dovesse stabilire che per crescere nel Palazzo e fuori non può rinunciare alla battaglia contro la “quota cento” e si deve opporre ad oltranza alla prospettiva del carcere per alcuni milioni di cittadini.

E chi sarebbe la vittima di questa crisi che non potrebbe sfociare in elezioni anticipate vista l’impraticabilità della modifica della legge elettorale? Conte, sempre Conte, fortissimamente Conte!

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Redazione16 Ottobre 2019

La manovra andata finalmente in porto conferma la natura precaria e conflittuale della coalizione governativa. Ogni partito, o frangia di partito o singolo leader, a partire dal Presidente del Consiglio, può rivendicare di aver imposto una sua particolare misura costringendo le altre componenti della maggioranza a piegare la testa. Ma il risultato complessivo di tutte queste mini-vittorie dei singoli non è la somma di una intesa collettiva ma solo la dimostrazione che nel governo ognuno pensa alla propria visibilità personale nella certezza che la blindatura della legislatura con il taglio dei parlamentari e la necessità di una nuova legge elettorale rendono impossibile una eventuale rottura con annesse elezioni anticipate e facilitano la conflittualità di coalizione.

In questa luce la finanziaria del governo giallo-rosso costituisce una sorta di prova generale di come il governo andrà avanti nei prossimi mesi: scontri continui e polemiche a non finire tra partiti e singoli leader all’insegna della ricerca del proprio personale posto al sole nella comune certezza che tanto non si vota.

Su questa convinzione grava però una incognita fondata sulla constatazione che alla stabilità sostanziale del quadro politico corrisponde una debolezza strutturale dell’esecutivo guidato da Giuseppe Conte. È come nella Prima Repubblica, quando la conventio ad excludendum nei confronti del Pci imposta dalle esigenze internazionali della guerra fredda rendeva inamovibile l’assetto politico generale lasciando però aperta la possibilità di cambiare i governi a seconda delle necessità contingenti delle forze politiche (partiti e correnti) di maggioranza.

Per il momento la concorrenzialità tra le componenti della coalizione giallo-rossa è destinata a rimanere sotto il livello di guardia. Ma tra qualche mese, magari sotto la spinta del risultati delle elezioni regionali, è facile prevedere che la tensione provocata dagli interessi delle parti e dei singoli potrà provocare una qualche esondazione. Di cui la prima vittima non potrà non essere l’attuale Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, come capitava regolarmente nella Prima Repubblica segnata dalla inamovibilità della formula del centro sinistra e dalla rotazione degli inquilini di Palazzo Chigi.

A quando “ Giuseppi stai sereno?”