L'Opinione delle Libertà | Arturo Diaconale - Part 19


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Redazione22 Maggio 2019

L’ex procuratore capo di Torino Armando Spataro ha lanciato un appello alla categoria dei magistrati a scendere in piazza in segno di solidarietà nei confronti di quei “colleghi” di Agrigento che, beffando il ministro dell’Interno Matteo Salvini attraverso il sequestro della nave Ong Sea-Watch, hanno permesso ai migranti presenti sul battello di sbarcare nel porto di Lampedusa.

Ciò che colpisce del comportamento di Spataro non è la soddisfazione per l’arrivo in Italia di un gruppo di disperati secondo le motivazioni evangeliche dell’accoglienza aperta sostenute dai cattolici di Papa Francesco. L’ex procuratore capo non tocca minimamente questo tasto nel suo appello. Si concentra solo sulla necessità che la categoria balzi come un sol uomo in difesa dei magistrati di Agrigento contestati dal ministro Salvini per aver aggirato il divieto di sbarco in Italia stabilito dal responsabile del Viminale.

La proposta di Spataro, quindi, non nasce da ragioni umanitarie o religiose ma solo da una motivazione di stampo corporativo. Nello scontro in atto tra Salvini ed il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, secondo il magistrato in pensione, le toghe debbono scendere in piazza per dimostrare che l’ordine giudiziario non si lascia condizionare o comandare da quello politico.

Questa motivazione di stampo esclusivamente corporativo non è affatto nuova. Al contrario, è la ragione di fondo di quel contrasto tra politica e magistratura che ha segnato la storia del nostro Paese negli ultimi trent’anni ed ha creato le condizioni per la paralisi istituzionale del momento presente. Un momento in cui basta una trovata giuridica di un singolo procuratore per ribaltare un indirizzo di governo che non è il frutto di un capriccio di un singolo esponente politico, ma è la scelta voluta e votata democraticamente dalla maggioranza dei cittadini del nostro Paese.

Ancora una volta, allora, in ballo torna il problema dell’equilibrio tra poteri ed ordini dello Stato. E si ripresenta il pericolo che in nome degli interessi corporativi di una categoria il sistema democratico venga paralizzato.

Peccato che l’appello di Spataro sia caduto nel vuoto. Forse con i magistrati corporativi in piazza la necessità della tanto invocata e mai realizzata riforma della giustizia diventerebbe una emergenza vitale per il Paese!

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Redazione21 Maggio 2019

Chi paga? Posto che la campagna elettorale di Matteo Salvini, come dice Luigi Di Maio, è a carico del ministero dell’Interno e quindi degli italiani, a chi è a carico la campagna elettorale dello stesso Di Maio che dice di viaggiare sugli aerei di linea e non su quelli di Stato?

La questione non è una semplice polemica elettoralistica tra il leader grillino e quello leghista, con il primo impegnato ad accusare l’alleato concorrente di sprecare i soldi pubblici e l’altro che si morde la lingua per non riempire di improperi l’ex amico Luigino e mandare all’aria il governo. La questione è più ampia e seria. E riguarda il tema generale del finanziamento della politica. Tema ufficialmente cancellato visto che il finanziamento pubblico è abolito, i finanziamenti elettorali sono stati drasticamente ridotti e qualsiasi elargizione privata a favore di qualche esponente di partito o di partito stesso rischia di far scattare l’accusa di finanziamento illecito o di corruzione.

Insomma, ufficialmente il finanziamento della politica non esiste. Eppure i massimi leader godono di apparati ampi e costosi, girano in lungo ed in largo la penisola seguiti da stuoli di collaboratori, partecipano a riunioni e comizi la cui preparazione ed organizzazione non è gratuita e viaggiano, mangiano e dormono spendendo e spandendo soldi che in teoria non dovrebbero avere.

Di Maio dice che Salvini usa il denaro pubblico approfittando della propria carica di ministro dell’Interno. Prendendo per buona la sua accusa, si può allora stabilire che il leader leghista si appoggia sul denaro pubblico. Tanto che la Corte dei Conti ha aperto un procedimento a sua carico per danno erariale. Ma se il “truce” Salvini attinge alle casse dello Stato il lavato, pettinato, stirato e perfettino Di Maio da dove tira fuori i soldi per pagare la propria campagna elettorale? Fare i conti nelle tasche altrui è sempre sgradevole. Ma alle volte serve per sfuggire al rischio di passare per cretini. Per cui non c’è nulla di sgradevole se si rileva che la campagna elettorale di Di Maio è costosa come quella del suo avversario e dei leader di tutti i partiti ma, a differenza degli altri, nasconde la sua fonte di sostentamento.

Chi paga per Di Maio? Bella domanda per una risposta che non può essere elusa dal fustigatore degli altrui costumi!

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Redazione21 Maggio 2019

Nelle mani di Matteo Salvini il crocefisso ed il rosario diventano degli strumenti di sovranismo feticista. Per cui, come ha sentenziato il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Mogavero, il leader leghista non può essere considerato un cristiano. Queste affermazioni stanno a dimostrare che una ventata di neo-manicheismo elettoralistico sta fischiando sulla Chiesa cattolica italiana. Pur di impedire a Salvini di conquistare un successo elettorale nel voto del 26 maggio, autorevoli esponenti delle gerarchie e della stampa cattolica non esitano a pronunciare anatemi fondati sul nulla che rischiano di provocare lacerazioni insanabili tra i credenti ed i non credenti.

Usare il crocefisso per scopi elettorali è sicuramente sbagliato. Ma stabilire che lo stesso crocefisso sia il simbolo solo di quella parte della Chiesa che predica la politica dell’accoglienza senza limiti e contesta la linea salviniana dei porti chiusi, è molto più di un semplice sbaglio. Chi compie un errore così grave rifiuta di riconoscere una verità storica banale. Dai tempi di Costantino il crocefisso non è solo il simbolo dell’amore cristiano ma è anche un potentissimo simbolo politico, usato in duemila anni da chiunque abbia cercato la legittimazione di Dio per dare forza alle imprese del proprio Cesare. È la storia del mondo occidentale.

Oggi la Chiesa di Papa Francesco stabilisce che questo uso è inaccettabile. Perché la politica va separata dalla religione. Soprattutto se questa politica non è in linea con l’indirizzo ideologico assunto dal Pontefice e si oppone a chi predica la solidarietà scaricando i problemi che essa pone sulle spalle dello Stato e dei cittadini.

Ma tanto neo-manicheismo non tiene conto che in duemila anni il crocefisso è diventato anche il simbolo della civiltà occidentale, cioè il simbolo in cui si identificano non solo i cattolici ma anche tutti quelli che cattolici non sono e si sentono cristiani solo per ragioni storiche e culturali.

La Chiesa bergogliana vuole cancellare questo dato di fatto. Sbaglia, perché l’intolleranza manichea ha sempre prodotto fratture scismatiche.

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Redazione20 Maggio 2019

L’augurio è che il ministro degli Affari Esteri, Enzo Moavero Milanesi, non abbia preso sul serio la lettera del capo delle Special Procedures dell’Alto Commissariato per i Diritti umani, Beatriz Balbin, in cui, a nome delle Nazioni Unite, si chiede di fermare il decreto sicurezza preannunciato dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini, in quanto “potenzialmente in grado di compromettere i diritti umani dei migranti”.

Una tale richiesta, infatti, va buttata rapidamente nel cestino della carta straccia. Non solo perché rappresenta una indebita ingerenza nelle questioni interne di un Paese come l’Italia che ha il diritto ed il dovere di decidere autonomamente sui problemi della propria sicurezza. Ma soprattutto perché in tema di immigrazione, in particolare quella che dal Nord Africa si indirizza verso il nostro Paese, l’Onu non ha alcun titolo giuridico, politico e morale per impartire alcun genere di lezione.

La ragione è che il fenomeno dell’immigrazione è in gran parte il frutto del fallimento delle Nazioni Unite. Nel Canale di Sicilia non affondano solo i barconi dei disperati, ma anche e soprattutto la credibilità e l’autorevolezza del massimo organismo internazionale incapace di esercitare qualsiasi tipo di funzione in grado di affrontare le cause di fondo dei grandi flussi migratori.

Il fallimento delle Nazioni Unite emerge ogni giorno con maggiore evidenza nello sviluppo del caos libico. L’opera dei rappresentanti del Palazzo di Vetro è risultata ininfluente. Il ché può essere anche comprensibile visto che l’azione politica dell’Onu diventa concreta solo quando può contare sul consenso delle grandi potenze e questo consenso è del tutto assente nelle vicende dell’ex colonia italiana. Ma in Libia l’Onu sta fallendo anche e soprattutto sul terreno della difesa di quei valori umani che teme possano essere messi in discussione in Italia con il decreto bis sulla sicurezza. Il controllo dei campi profughi dove si vive in condizioni disumane, si consumano prevaricazioni e torture di ogni genere e da dove si centellinano le partenze dei migranti in maniera ricattatoria verso il nostro Paese, è lasciato alle bande dei miliziani.

I rappresentanti del massimo organismo internazionale parlano ma non agiscono. Dovrebbero pretendere il controllo e la gestione delle masse di profughi ostaggio in Libia dei trafficanti di esseri umani camuffati da soggetti politici. Invece stanno a guardare con le mani in mano salvo salire in cattedra per impartire lezioni che riguardano solo il loro operato. Moavero, quindi, farebbe bene di rinviare la lettera al mittente. E l’intero Governo italiano si dovrebbe affrettare a sollevare a livello internazionale il problema del fallimento dell’Onu sull’immigrazione!

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Redazione17 Maggio 2019

Non bisogna essere dei fini politologi o giuristi per rilevare la sproporzione esistente tra la debolezza delle accuse contro esponenti lombardi della Lega e di Forza Italia (finanziamento illecito, nomine pilotate per voto di scambio) e la bomba atomica della denuncia di una nuova Tangentopoli di matrice leghista lanciata dal capo politico del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio.

Questa montagna di accuse poggia su basi vaghe. Debbono essere dimostrate e portate al vaglio di processi in cui possono essere smontate facilmente. E proprio perché non rappresentano un nuovo caso Chiesa e non scoperchiano la pentola in cui si nasconde il vizio di fondo della Repubblica ma solo (ed eventualmente) l’inevitabile scarto di macchine di potere in funzione da molto tempo, rendono fin troppo evidente come il lancio del missile a testata nucleare della Nuova Tangentopoli sia un atto troppo grave per non essere il frutto di una strategia attentamente programmata.

Matteo Salvini è convinto che la bomba serva ad impedire in extremis la vittoria elettorale della Lega. E sospetta che l’iniziativa estrema dei grillini nasca dai tradizionali rapporti privilegiati esistenti tra i pentastellati ed alcune procure. Ma non tiene conto che è proprio l’esilità della presunta giustizia ad orologeria a rendere esasperata l’accusa di Nuova Tangentopoli lanciata da Di Maio. Il sospetto di un qualche combinato disposto tra grillini e qualche magistrato continua ad esistere. Ma il leader della Lega dovrebbe convincersi che la partita non è quella solita tra magistratura e politica con il Movimento Cinque Stelle a cavalcare a proprio vantaggio la rivoluzione giudiziaria. Rispetto al passato la novità è rappresentata dal fatto che un flebile pretesto giudiziario serve al partito con cui la Lega governa il Paese di lanciare un mezzo estremo di distruzione di massa contro il proprio alleato. Tutto questo per scongiurare l’ipotesi di una vittoria elettorale in un voto, come quello del 26 maggio, che non incide nei rapporti di forza del Parlamento nazionale. Il ché dovrebbe imporre a Salvini di chiedersi quale tipo di guerra estrema potrebbe scatenare Di Maio nel caso di elezioni politiche anticipate. Ma, soprattutto, se sia mai possibile continuare a tenere in piedi una alleanza in cui il partner non si limita a sognare di farti lo sgambetto, ma si prepara a dissolverti nell’acido.

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Redazione16 Maggio 2019

L’aspetto più singolare della campagna elettorale non è dato dalla baruffe proporzionalistiche di Lega e Movimento 5 Stelle. Fanno parte di un copione scontato e, con ogni probabilità, finiranno subito dopo le solite strumentalizzazioni dei risultati del voto. Matteo Salvini e Luigi Di Maio sanno perfettamente che l’unica alternativa all’attuale quadro politico è rappresentata dallo scioglimento delle Camere e dalle elezioni anticipate. E fino a quando l’eventualità non farà gola ad uno dei due alleati l’Esecutivo giallo-verde rimarrà in piedi anche se paralizzato.

Di veramente singolare, bizzarro ed anche ridicolo di questi giorni di vigilia del 26 maggio, invece, c’è la spinta degli intellettuali e dei giornalisti di sinistra alla Cacciari ed alla Gruber a radicalizzare in senso progressista la linea del Movimento Cinque Stelle nella convinzione che in questo modo si costruiscono le condizioni per una futura alleanza tra il Movimento grillino ed il Partito Democratico. Costoro vivono ancora con gli schemi della Prima Repubblica adattati alla Seconda e sono convinti che la riproposizione della polarizzazione destra-sinistra sia possibile per marginalizzare a destra la Lega e l’uomo nero Matteo Salvini e spingere il Movimento Cinque Stelle a diventare il braccio armato di una sinistra ancora e sempre egemonizzata dagli eredi del Pci. Ma gli schemi sono cambiati. E più si spinge a sinistra il Movimento Cinque Stelle, che alle ultime elezioni ha raccolto quasi il doppio del voto del democratici post-comunisti, più si amplia lo spazio elettorale dei grillini e, automaticamente, si riduce quello del Partito Democratico depurato dal renzismo e riportato alla sua radice da Nicola Zingaretti.

Quest’ultimo sembra compiacersi dell’impegno degli intellettuali confusi e dei giornalisti in cerca di audience progressista. Ma farebbe bene a cercare di frenare un fenomeno del genere. Perché costoro stanno di fatto boicottando il suo tentativo di ricompattare il mondo della sinistra tradizionale e recuperare almeno una parte dei voti persi e stanno aiutando il Movimento Cinque Stelle a riportare a casa gli elettori delusi da un anno di governo ed indirizzati verso la protesta astensionistica. Mai come in questo momento calza per Zingaretti ed il Pd l’antico detto “dagli amici mi guardi Iddio!”.

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Redazione15 Maggio 2019

Con il blitz dell’Elemosiniere del Papa che ha riattaccato la corrente, staccata per una morosità di trecentomila euro, al palazzo romano occupato da cinquecento tra migranti e disperati nostrani, la Chiesa di Francesco è entrata ufficialmente nella politica italiana. Non che in precedenza non avesse fatto pesare la propria influenza insistendo su quel tema dell’accoglienza senza vincoli che costituisce il pilastro dell’antagonismo di sinistra al “prima gli italiani” del populismo sovranista di Matteo Salvini. Ma prima del gesto del Cardinale tutto era lasciato alle parole e nulla ai fatti. Ed il fatto rappresentato da una consapevole e calcolata infrazione delle regole in nome di un valore considerato superiore, quale quello della solidarietà, costituisce un precedente politico di primaria importanza destinato non solo a segnare l’esito della campagna elettorale ma anche a condizionare gli sviluppi futuri della politica nazionale.

Il messaggio dell’atto, concreto oltre che essere simbolico, dell’Elemosiniere del Papa indica che per la Chiesa la solidarietà è al di sopra della legalità. Gli sciocchi dirigenti grillini che plaudono al gesto non capiscono che la sua portata va oltre l’antisalvinismo e colpisce direttamente lo stato di diritto. Quello da loro totalmente ignorato ma a cui si appellano ottusamente quando parlano di onestà e di legalità. Quello che si fonda sul rispetto delle regole basilari di una società civile retta da un sistema democratico e che viene messo pesantemente in discussione quando si dimostra che tali regole possono e vanno ignorate in nome di un valore etico considerato superiore.

Il primo a compiere ed a rivendicare il diritto di infrangere il diritto in nome della solidarietà è stato il sindaco di Riace Mimmo Lucano. Ma la sua è stata considerata una scelta inconsapevole di un orecchiante della vulgata buonista. L’intervento del Vaticano di Papa Bergoglio, invece, esclude la non consapevolezza buonista e costituisce un atto di voluto e diretto attacco eversivo allo stato di diritto della democrazia italiana.

È probabile che questo intervento politico poco possa incidere sui risultati elettorali del 26 maggio. I cattolici bergogliani sono da tempo schierati a sinistra o a sostegno dei Cinque Stelle. Ma l’atto eversivo ha una portata molto più lunga. Introduce nella politica nazionale una sorta di komeinismo francescano diretto a contrapporre allo stato di diritto democratico quello dello stato etico di emanazione vaticana. Una sorta di nostalgia di Pio IX in salsa peronista di sinistra (anche se ai tempi del Papa Re e del potere temporale al posto dell’Elemosiniere del Papa sarebbero arrivati i gendarmi!).

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Redazione14 Maggio 2019

Forse non sarà “disposto” il combinato tra l’offensiva antileghista lanciata dal Movimento Cinque Stelle insieme ai soliti media della sinistra e le inchieste giudiziarie a carico di Armando Siri e del governatore lombardo Attilio Fontana. Ma se non lo è realmente, appare fin troppo virtualmente simile ai tanti esempi di uso politico della giustizia messi in atto negli ultimi decenni dal circo mediatico-giudiziario diretto sempre e comunque ad eliminare il leader della parte avversa al cosiddetto fronte progressista.

Questo aspetto virtuale pone un problema di primaria importanza in tutto uguale a quello che ha portato alla defenestrazione del sottosegretario leghista ed al tentativo di linciaggio ai danni del Presidente della Regione Lombardia. Il problema è quello dell’opportunità politica della permanenza in alti ruoli istituzionali di personaggi che sfruttano a vantaggio proprio e della propria forza politica l’azione niente affatto virtuale ma concretamente reale del circo mediatico-giudiziario.

La questione dell’opportunità politica, infatti, non può riguardare solo chi ha ricevuto un avviso di garanzia e deve rinunciare al proprio incarico istituzionale non per una qualche sentenza di condanna giudiziaria ma per l’ombra di discredito che può provocare il semplice sospetto di una sua eventuale colpevolezza. Se è il sospetto a stabilire le regole dell’opportunità politica, questo sospetto privo di riscontri reali deve poter valere anche nei confronti di chi ricopre incarichi istituzionali e sfrutta a proprio vantaggio l’uso politico della giustizia ai danni dei propri concorrenti politici.

I dirigenti leghisti che sospettano un rapporto privilegiato tra alcune procure ed alcuni magistrati ed il vertice del Movimento Cinque Stelle avrebbero tutto il diritto di porre la questione di opportunità politica nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che non perde l’occasione di compiacersi dell’ottimo lavoro compiuto dal circo mediatico-giudiziario. Non esiste alcuna prova dell’esistenza di un simile rapporto privilegiato. E si può tranquillamente escludere che l’attuale ministro della Giustizia, che non sembra essere un emulo del Cardinal Mazzarino ma solo un modesto azzeccagarbugli, possa essere il regista di trame di tale portata. Ma il sospetto esiste, l’uso politico della giustizia impazza, il circo mediatico-giudiziario opera a pieno regime. E se il ministro della Giustizia non contrasta mai il funzionamento deformato della materia di sua competenza non si capisce perché non debba fare la fine di Siri. Per opportunità politica!

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Redazione13 Maggio 2019

Nell’iniziare il suo “coccodrillo” sul Corriere della Sera dedicato a Gianni De Michelis, Gian Antonio Stella ha ricordato i momenti “più umilianti” della vita politica dello scomparso esponente socialista: quelli avvenuti subito dopo Tangentopoli, cioè la fuga nelle calli veneziane inseguito da una folla che lo voleva buttare nei canali al grido “ciapalo, ciapalo, onto, onto!” e le contestazioni degli studenti della Facoltà di Chimica che lo costrinsero a rinunciare a tornare all’insegnamento e ad andarsene in pensione.

Partire da questi episodi per ricordare De Michelis non è un modo per ribadire la propria considerazione negativa del personaggio, ma è la spia di una sorta di processo di identificazione di Gian Antonio Stella con i giovanotti che volevano gettare nei canali l’esponente socialista e degli studenti che di fatto provocarono la sua espulsione dall’Università e dall’insegnamento. Il giornalista del Corriere della Sera, in sostanza, si è identificato nei linciatori e ha scritto un “coccodrillo” che è apparso come un elogio del linciaggio.

Stella, che in fatto di linciaggio mediatico è un esperto, interpreta probabilmente lo spirito del tempo: quello passato ma soprattutto quello presente. In altra pagina dello stesso numero del Corriere della Sera compare la fotografia di Chiara Giannini, l’autrice dell’intervista a Matteo Salvini divenuto un libro edito dalla casa editrice Altaforte espulsa dal Salone del Libro di Torino, che all’ingresso del Lingotto riprende con il suo telefonino un tizio con il pugno chiuso che le canta in faccia in segno di condanna e di disprezzo “Bella ciao”. Chiara Giannini non ha scritto “Mistica del fascismo” o la riedizione del “Mein Kampf”, ma ha solo intervistato il ministro dell’Interno e leader della Lega. Eppure è stata costretta a subire non solo una ingiusta espulsione dal Salone del Libro, ma anche una sorta di linciaggio morale ad opera di un invasato e di un gruppetto di suoi amici.

I casi di linciaggio si fermano qui? Niente affatto. I media lo nascondono ma non passa giorno che Matteo Salvini, divenuto bersaglio preferito dei linciatori professionisti, non venga accolto nelle piazze e seguito sui social con grida e messaggi inneggianti alla sua morte.

Prendersela con costoro è inutile. Ma denunciare la viltà e l’ignominia di chi rimane passivo pur avendo la cultura e gli strumenti per contrastare questo presunto spirito del tempo, è assolutamente doveroso. Forse serve a poco ma non sempre l’onestà intellettuale si coniuga con l’utilità!

 

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Redazione10 Maggio 2019

L’aspetto più paradossale dell’attuale fase politica italiana non è la competizione esasperata tra Lega e Movimento Cinque Stelle per un voto europeo che non cambierà gli equilibri parlamentari nazionali. E non è neppure la nascita di un fronte anti-salviniano formato da grillini e sinistre varie, deciso a criminalizzare il leader leghista come avvenne in passato con i principali nemici dello schieramento progressista. Il vero paradosso della politica italiana è la perdurante centralità di Silvio Berlusconi. L’affermazione può sembrare forzata, addirittura ridicola se si considera che il partito del Cavaliere è in calo vistoso, che lo stesso Berlusconi è in fase di declino a causa dei problemi di salute e dell’età avanzata e che la prospettiva di essere eletto nel Parlamento europeo lo allontana materialmente dalla politica italiana e lo colloca in una dimensione europea da sempre considerata come una sorta di limbo lontano e sostanzialmente inutile.

Eppure, malgrado tutte queste oggettive condizioni, Berlusconi rimane centrale per il futuro della politica italiana. Non per sua scelta, ma per la scelta dei suoi competitori ed avversari. Non è forse vero che per esorcizzare l’ipotesi di una rottura del Governo giallo-verde da parte della Lega i dirigenti del M5S contestano Salvini dicendogli che in questo caso tornerebbe ad allearsi con il Cavaliere Nero? E non è forse vero che, nel timore di tornare ad allearsi a livello nazionale con Berlusconi ed offrire il fianco alle contestazioni grilline e della sinistra, lo stesso Salvini ribadisce in ogni occasione che non provocherà mai la caduta del Governo Conte e la fine dell’alleanza con i suoi nemici naturali?

I sondaggi, anche quelli più bislacchi e provocati più dalle necessità elettorali dei committenti piuttosto che dalle rilevazioni effettive, indicano che se si andasse al voto politico anticipato il centrodestra tradizionale sfiorerebbe il cinquanta per cento dei suffragi. L’alternativa al governo dominato dai giustizialisti per sola convenienza, dunque, ci sarebbe. E sarebbe una alternativa che, pur non essendo gradita al Presidente della Repubblica, potrebbe dare stabilità al Paese in una fase di nuova impennata della crisi economica. Perché allora questa alternativa non viene perseguita e realizzata? La risposta è Berlusconi. Finché c’è il Cavaliere i grillini si sentono tutelati dalla paura di Salvini di tornare alla sua alleanza naturale. Ma può l’ossessione per Berlusconi bloccare la politica nazionale? E, soprattutto, visto che la forza espansiva della Lega sembra essersi fermata, che cosa aspetta il suo leader a tesaurizzare il proprio successo prima che sia troppo tardi?