L'Opinione delle Libertà | Arturo Diaconale - Part 22


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Redazione8 Aprile 2019

L’unico precedente di due partiti attestati su posizioni antitetiche che si accordano per formare un governo è quello realizzato alla Regione Sicilia nel 1958 da Silvio Milazzo eletto a Presidente dell’Isola grazie ai voti del Partito Comunista Italiano e del Movimento Sociale Italiano. Milazzo era un democristiano contrario all’allora segretario Amintore Fanfani e riuscì a mettere insieme gli opposti rappresentati dai comunisti e dagli ex fascisti in nome dell’autonomismo siciliano minacciato dal centralismo fanfaniano.

Il milazzismo non ebbe vita lunga. Dopo qualche anno i comunisti riscoprirono l’antica avversione per gli ex fascisti e l’esperimento finì tra scandali ed infiltrazioni mafiose non senza aver dimostrato, anticipando il compromesso storico, che democristiani e comunisti potevano tranquillamente collaborare tra di loro.

Giuseppe Conte, ovviamente, non è Silvio Milazzo. Anche perché non è artefice della sua fortuna politica ma un semplice beneficiato della scelta grillina. Ma il Governo giallo-verde può essere considerato come un esempio di milazzismo, con due partiti che non sono stati scelti dagli italiani per governare insieme ma per competere da posizioni opposte e che solo dopo le elezioni hanno sottoscritto un patto di governo per evitare il voto anticipato ed una crisi di sistema.

Proprio perché esempio di una alchimia parlamentare e non di una scelta del corpo elettorale, l’esperimento giallo-verde è destinato a fare la fine del milazzismo. Ed a farla in tempi che rischiano di essere accelerati dalla campagna elettorale delle elezioni europee di fine maggio. Perché la competizione elettorale accentua la differenze e le distanze non tra i leader dei due partiti ma tra gli elettorati delle due forze politiche. E mentre le distanze tra Salvini e Di Maio possono essere facilmente colmate da una pizza condita dal sugo del potere, quelle tra due mondi socialmente e culturalmente alternativi diventano dei baratri insuperabili. Nessuno dubita che fino al 28 maggio leghisti e grillini possano continuare a combattersi a parole rinviando la soluzione dei problemi a data da destinarsi. Ma dopo il voto, quando si tratterà di decidere sulla Tav, sulla prescrizione, sulle infrastrutture, sull’ambiente e su qualsiasi altro argomento oggi oggetto di campagna elettorale, i veleni del presente agiranno pesantemente sui rispettivi corpi elettorali rendendo impossibile la convivenza governativa. Come all’epoca del milazzismo!

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Redazione5 Aprile 2019

Il problema del nuovo segretario del Partito Democratico Nicola Zingaretti non è il “fuoco amico” ma la linea politica. Se le liste per le elezioni europee vengono aperte ai “bersaniani”, cioè a quanti decisero di attuare la scissione in contrasto con la linea politica dell’allora segretario Matteo Renzi, appare fin troppo evidente che la decisione di Zingaretti sia destinata a provocare la reazione negativa degli ex renziani. Non per fatto personale nei confronti dei “bersaniani” o del segretario ma perché l’apertura delle liste agli scissionisti comporta un significativo spostamento a sinistra del baricentro politico del Pd che non può lasciare indifferente chi è contrario ad una svolta del genere.

Zingaretti sa bene che il “fuoco amico” non nasce da un senso di ripicca ma da una forte motivazione politica. E ha cercato di mimetizzare la conversione a sinistra impressa dalla sua segreteria al Pd sostenendo la necessità del partito unitario ed allargato e cercando di bilanciare l’apertura agli scissionisti con la candidatura di Carlo Calenda, autonominatosi espressione delle componenti liberale e riformista. Ma la foglia di fico “calendiana” non funziona. Sia perché l’ex ministro è autoreferenziale e rappresenta esclusivamente se stesso. Sia perché chi è contrario allo spostamento a sinistra ha già un punto di riferimento che si chiama Matteo Renzi e che non ha mai nascosto di essere totalmente ostile all’obiettivo verso cui la svolta di Zingaretti è indirizzata. Quello di creare le condizioni per una alleanza tra Pd e Movimento Cinque Stelle che segni il ritorno dell’unità delle sinistre e costituisce la vera alternativa al Governo giallo-verde ed al centrodestra a trazione salviniana.

È probabile che durante la campagna elettorale i nemici del “fronte popolare” rivisitato da Zingaretti secondo l’intuizione avuta a suo tempo da Pier Luigi Bersani evitino di mettere mano al “fuoco amico” per non assumersi la responsabilità di una sconfitta elettorale che appare sempre più probabile vista la scarsa forza carismatica dell’attuale segretario. Ma è certo che se mai le liste aperte ai bersaniani non dovessero produrre il risultato sperato, cioè garantire la ripresa dei consensi ed il superamento della quota del venti per cento, all’indomani del voto scatterebbe una ennesima guerra interna nel Pd sul tema del rapporto con il Movimento Cinque Stelle. Altro che “fuoco amico”! Lotta fratricida!

 

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Redazione4 Aprile 2019

Nel giorno in cui il sottosegretario Giancarlo Giorgetti ha rivelato che gli esponenti del Movimento Cinque Stelle ed, in particolare, i ministri grillini hanno “un dossier su tutti”, il sottosegretario agli Affari regionali del Movimento, Stefano Buffagni, ha comunicato che non sono opera dell’”intelligence” del Movimento le informazioni personali sulla collaboratrice del ministro Giovanni Tria apparse su “Il Fatto” e “La Verità”.

Mettendo insieme due notizie tra loro scollegate si deve necessariamente concludere che il Movimento Cinque Stelle prepara dossier sulle persone mediante un’intelligence adeguatamente allestita allo scopo. Non si sa se questa intelligence sia interna o sia esterna, cioè se sia formata da militanti del Movimento o se sia assicurata da una o più società che svolgono attività di investigazione e di raccolta di informazioni in base a contratti commerciali.

La differenza non ha un valore particolare. Dossieraggio si fa in un modo e dossieraggio si fa nell’altro. Ma introduce un interrogativo sulla notizia apparsa nei giorni scorsi secondo cui alcune società specializzate in intercettazioni telefoniche che operano abitualmente per le principali Procure italiane hanno raccolto ed archiviato informazioni su centinaia di cittadini non sottoposti ad indagini da parte della magistratura. Se è vero che a pensar male si fa peccato ma spesso si coglie nel segno, si dovrebbero collegare tra loro le tre diverse notizie rilevando come da sempre la stampa vicina al M5S abbia rapporti privilegiati con alcune Procure e singoli magistrati inquirenti e concludere formulando un inquietante interrogativo sui rapporti tra la presunta intelligence grillina e queste società legate da rapporti commerciali con le Procure.

Senza perdersi in supposizioni astratte e, al momento, prive di riscontri, è però evidente come il quadro emerso da una serie di notizie di cronaca sia estremamente inquietante ed imponga chiarimenti immediati. È vero che un partito che gode della maggioranza nella compagine governativa ed esprime non solo il Presidente del Consiglio ma anche il ministro della Giustizia può contare su una struttura di intelligence per indagare sui ministri dei partiti alleati, sui loro collaboratori e su chiunque possa essere anche vagamente candidato a qualche carica pubblica? In cosa consiste la struttura a cui ha fatto riferimento il sottosegretario Buffagni? E, soprattutto, questa struttura riservata ha qualche tipo di rapporti con la magistratura ed i servizi di intelligence dello Stato? Un simile apparato opera sul terreno della legalità? O, al contrario, rappresenta un corpo separato che compie atti illeciti e lesivi non solo del diritto alla riservatezza dei cittadini ma, anche e soprattutto, dei valori di libertà e di democrazia sanciti dalla Costituzione?

Caro Matteo Salvini, in qualità di ministro dell’Interno, se ci sei batti un colpo!

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Redazione3 Aprile 2019

Colpisce l’unanimità registrata in Parlamento sulla votazione della legge che prevede carcere e sanzioni pecuniarie severissime per chi compie dei ricatti e delle vendette di natura sessuale con filmati ed immagini messi nella Rete. A colpire non è l’improvvisa concordia registrata tra forze politiche che si scontrano abitualmente su provvedimenti legislativi di qualsiasi genere. E non perché non sarebbe necessario che questa concordia si manifestasse più spesso mettendo da parte gli interessi particolari dei singoli partiti di fronte all’interesse generale del Paese. Ma perché la concordia registrata sull’inasprimento delle pene per il “revenge porn” non è frutto dell’interesse generale, ma dell’ipocrisia collettiva.

I parlamentari che hanno votato la legge superando le barriere e le divergenze dei rispettivi partiti sanno benissimo che questa norma farà la fine delle famose “grida” dei governatori spagnoli della Lombardia degli anni a cavallo tra il Cinquecento ed il Seicento raccontate da Alessandro Manzoni nei sui “Promessi sposi”. Verrà applicata solo in qualche caso isolato ed esclusivamente a seguito dell’attenzione mediatica che ad esso verrà dedicata. Nella stragrande maggioranza dei casi la legge che punisce severamente il ricatto e la vendetta sessuale tramite il web e i social farà la stessa fine delle grida con cui i governatori spagnoli avrebbero voluto eliminare il fenomeno dei “bravi” al servizio violento dei vari Don Rodrigo dell’epoca. Rimarrà lettera morta. E non perché la paura delle pene indurrà i ricattatori ed i vendicatori sessuali a non compiere i reati, ma perché il fenomeno dell’uso della Rete come strumento per ritorsioni ed esibizionismi personali è talmente vasto da rendere inefficace qualsiasi iniziativa giudiziaria.

Ci sarà, naturalmente, qualche punizione esemplare per qualche vicenda clamorosa. Ma tutto avverrà in base a quella logica del colpirne uno per educarne cento, cioè dell’atto emblematico dall’intento didattico che non educherà nessuno ed evidenzierà l’esistenza dell’impunità generalizzata.

L’unanimità che colpisce, quindi, è quella che indica come la cultura dell’ipocrisia di stampo giustizialista sia ormai diventata egemone. Tutti sanno che i fenomeni sociali non si fronteggiano a colpi di pene aggravate ma tutti si affrettano a rivendicare il merito di aver aumentato la severità pubblica. Quella che aumenta l’impunità privata!

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Redazione2 Aprile 2019

Due matrimoni hanno colpito l’opinione pubblica italiana grazie alla particolare attenzione loro dedicata dai grandi media nazionali. Quello tradizionale della vedova di un boss camorrista con un più giovane cantante neomelodico napoletano e quello di una tenente di vascello e di una marescialla della Marina Militare celebrato lunedì scorso a La Spezia. Il primo, assolutamente tradizionale visto che a sposarsi sono stati una donna ed un uomo, è stato presentato dalla grande stampa d’informazione come una pacchianata di pessimo gusto meritevole di disprezzo e di condanna per il gravissimo disdoro apportato alla città di Napoli. Il secondo, non tradizionale visto che l’unione civile ha riguardato due donne, è stato invece esaltato come un esempio di buon gusto, eleganza e, come ha rilevato la ministra della Difesa Elisabetta Trenta nel suo telegramma di augurio e di felicitazioni per la coppia , di una testimonianza di “una importante evoluzione nelle Forze Armate e nel nostro paese”.

Naturalmente nessuno può negare che il matrimonio tradizionale napoletano sia stato caratterizzato da un esibizionismo plebeo indecoroso ed inaccettabile. Così come nessuno può fare a meno di notare come il matrimonio omosessuale di La Spezia, con tanto di alte uniformi e picchetto d’onore con spade sguainate di ufficiali della Marina, abbia avuto un tratto evidente di eleganza e di raffinatezza. I media hanno insistito su queste due caratteristiche in modo tale che, a pochi giorni di distanza del convegno sulle famiglie di Verona, il Paese venisse investito da un messaggio semplice e chiarissimo: quello secondo cui il matrimonio tradizionale non è solo passatista ma anche inevitabilmente pacchiano e cafone mentre quello omosessuale non solo è elegante e raffinato ma, come ha detto la ministra grillina della Difesa Elisabetta Trenta, un esempio importante della evoluzione dei tempi.

Chi pensa che ognuno abbia il diritto di sposarsi chi vuole e come meglio crede non può non considerare questa contrapposizione come una forzatura da campagna elettorale. Ma proprio tenendo conto della natura elettoralistica della faccenda, con i media impegnati a criminalizzare la destra medioevale che difende le unioni eterosessuali ed a spostare i voti dei progressisti sui grillini impegnati a sostenere il valore innovativo delle unioni omosessuali, si deve necessariamente concludere che l’operazione mediatico-politica è sbagliata proprio sul piano elettorale. I matrimoni tradizionali riguardano una stragrande maggioranza di cittadini niente affatto contenta di essere considerata pacchiana, cafona, passatista e superata. Quelli omosessuali toccano una percentuale ridotta della popolazione che non ha i numeri per determinare grandi spostamenti di voti alle prossime elezioni europee. Le élites saranno pure raffinate, come lo erano i nobili libertini della fine del Settecento francese e come lo sono i giornalisti dei grandi media che le affiancano oggi, ma il terzo stato plebeo è più ampio e, quando è troppo disprezzato, tende a reagire chiudendo l’era dei nobili e privilegiati libertini e facendo la rivoluzione borghese della politica e del costume.

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Redazione1 Aprile 2019

Lega e Movimento Cinque Stelle litigano in vista delle elezioni europee di fine maggio, ma le conseguenze delle loro polemiche non sono destinate a scaricarsi sul Governo ma sui bacini elettorali dei partiti contigui a quelli dei leghisti e dei grillini. La polarizzazione della campagna elettorale, in sostanza, con Lega e Cinque Stelle impegnati a radicalizzare le rispettive posizioni antagoniste, ha come risultato principale quello di mettere Matteo Salvini nelle condizioni di continuare a svuotare il bacino elettorale del resto del centrodestra (di Forza Italia in particolare) e di assicurare a Luigi Di Maio la possibilità di tenere fermi i suffragi strappati lo scorso anno alla sinistra ed oggi tentati dall’idea di un ritorno a casa dopo la svolta progressista del Partito Democratico di Nicola Zingaretti.

Non è un caso che l’apice di questa radicalizzazione sia avvenuta in occasione del convegno sulla famiglia tradizionale svoltosi a Verona. Di fronte alla partecipazione di Salvini all’iniziativa tesa a ribadire la posizione trainante della Lega nel fronte moderato e conservatore, Di Maio ha colto al volo l’occasione per cercare di compiere un’operazione analoga sullo schieramento opposto dimostrando agli elettori di sinistra che il vero campione dell’area progressista non è il Pd ma è solo il Movimento Cinque Stelle.

Solo i risultati elettorali delle Europee diranno se questa strategia, probabilmente niente affatto voluta ma del tutto casuale, premierà i suoi artefici. In attesa, ci sono delle considerazioni che vanno analizzate. In primo luogo quella relativa al danno significativo che il Governo giallo-verde è destinato a subire dal contrasto continuo tra le sue due componenti. La coalizione arriverà al voto spaccata e la divisione, sempre che non inneschi l’esplosione definitiva del quadro politico, avrà bisogno di lungo tempo per essere ricomposta. Con gravi rallentamenti sull’azione di governo proprio nel momento in cui la recessione economica dovrà essere affrontata con la massima capacità e decisione.

In secondo luogo, quella riguardante l’incapacità dei partiti concorrenti di Lega e Cinque Stelle di fronteggiare la radicalizzazione ai loro danni. Forza Italia si affida solo alle capacità salvifiche di Silvio Berlusconi. Il Pd alla storica illusione della sinistra che le piazze piene dei professionisti delle marce con cestini da viaggio assicurati possano garantire il riempimento delle urne. Ma anche i santi possono essere stanchi e le masse dei soliti noti non hanno mai riempito le urne visto che ai seggi non distribuiscono i cestini!

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Redazione29 Marzo 2019

Le elezioni che si celebrano con il sistema proporzionale hanno come caratteristica principale quella di accendere la massima competitività tra i partiti che più sono vicini politicamente e gravitano nella stessa area politica. Alle elezioni di fine maggio questa regola varrà anche per Lega e Movimento Cinque Stelle, che pur essendo radicate in aree politiche totalmente diverse e distanti si contendono quella fascia della società italiana formata dai populisti trasversali che alle ultime elezioni politiche hanno puntato sul partito guidato da Luigi Di Maio ma che, come dimostrano i flussi elettorali delle recenti Regionali, tendono a spostarsi sul polo opposto rappresentato dal partito di Matteo Salvini.

Questa regola si imporrà anche con il Partito Democratico di Nicola Zingaretti spostato a sinistra che tenterà di recuperare i suffragi del proprio tradizionale bacino elettorale attratti a suo tempo dal richiamo giustizialista e barricadiero del Movimento Cinque Stelle. Ma, soprattutto, segnerà in maniera determinante la campagna elettorale dei partiti del vecchio centrodestra che dopo aver combattuto e vinto insieme le battaglie nelle regioni si scateneranno in una lotta senza quartiere per strapparsi reciprocamente fette dell’elettorato della propria area di riferimento.

In realtà quello tra Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia non sarà un triangolare dal finale a sorpresa. Perché la battaglia sarà segnata dal tentativo dei partiti di Salvini e di Giorgia Meloni di dividersi le spoglie di Forza Italia e dallo sforzo di quest’ultima di contenere al massimo le perdite. Il fenomeno si è già manifestato nelle elezioni regionali in cui i tre partiti si sono presentati legati dall’alleanza comune ed è presumibile che diventerà sempre più accentuato mano a mano che si avvicinerà la data del voto.

La Lega esercita sugli elettori di Forza Italia l’attrazione che tutte le forze politiche in forte ascesa esercitano su quelle in declino. Lo stesso vale, sia pure in maniera più ridotta, per Fratelli d’Italia. Quest’ultimo, però, se riuscisse ad aprire in maniera tangibile a componenti di centrodestra diverse da quelle della propria identità originaria, potrebbe diventare per l’elettore forzista un polo di attrazione addirittura più forte di quello della Lega. Questo significa che la sorte di Forza Italia è segnata? L’unico scudo di cui il partito di Silvio Berlusconi dispone è rappresentato da Berlusconi stesso, l’unico in grado di tenere unito quello zoccolo di elettorato che non si considera di destra e vuole rimanere ancorato al centro. Le elezioni di maggio, quindi, saranno anche la cartina di tornasole della capacità di fascinazione personale del Cavaliere. Che, come spesso avviene nella storia, persa la capacità di essere spada dovrà accontentarsi di essere scudo e correre il rischio di non vedere adeguatamente premiato questo atto di estrema generosità nei confronti dei suoi fedelissimi.

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Redazione28 Marzo 2019

Se oggi il segretario del Partito Democratico fosse ancora Matteo Renzi è facile immaginare che metterebbe in piedi una lista per le elezioni europee segnata dalla presenza di personaggi in grado di attrarre i voti del mondo moderato, centrista. In pratica dei delusi di Forza Italia e dei berlusconiani decisi comunque a non morire salviniani. Ma il segretario del Pd è Nicola Zingaretti. Ed è quindi assolutamente normale che punti a costruire una lista per le Europee capace di recuperare i voti degli antirenziani che decisero di uscire dal partito in nome dell’ortodossia post-comunista e contro la presunta conversione a destra dell’ex leader. Si può discutere sul piano numerico se la mossa che avrebbe potuto compiere Renzi sarebbe stata più conveniente di quella che si accinge a realizzare Zingaretti. Ma si tratta di una impresa del tutto inutile. Perché mettere a confronto una ipotesi astratta con una operazione concreta è del tutto impossibile visto che il numero dei delusi berlusconiani potenzialmente attratti dal Pd è incerto.

Al contrario, il 2 o il 3 per cento di Leu è concreto e l’esigenza primaria di Zingaretti è di approfittare del voto europeo per dimostrare che il proprio partito ha superato il trauma della sconfitta ed è in grado di tornare ad essere la forza trainante della sinistra italiana.

La logica, quindi, dice che le elezioni europee segneranno una svolta a sinistra del Pd imposta dalla necessità di recuperare i consensi persi con la scissione di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Roberto Speranza. Ma la stessa logica dice anche che questo spostamento avrà una doppia conseguenza. Da un lato imporrà ai renziani ed ai moderati del Pd di verificare le condizioni di sopravvivenza in un partito rientrato completamente nell’alveo della tradizione Pci-Pds. Dall’altro costringerà gran parte dell’area moderata orfana del berlusconismo o a lasciarsi fagocitare dalla Lega (o da Fratelli d’Italia) o a vagare in maniera confusa dentro un’area centrista priva di un punto di riferimento preciso.

Quanto vale numericamente quest’area che Zingaretti abbandona al suo destino? Il calcolo è al momento impossibile. In compenso è certo che con la sua utilità marginale quest’area sarà l’ago della bilancia dei futuri equilibri politici nazionali.

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Redazione27 Marzo 2019

Non sembra essere stata una gran trovata quella degli strateghi della propaganda del Movimento Cinque Stelle di mettere la sordina alle elezioni in Basilicata per puntare esclusivamente sul patto con la Cina trasformando Marco Polo in un antesignano del grillismo e la “Via della Seta” in una sorta di salvifica invenzione di Giuseppe Conte e di Luigi Di Maio. Perché c’è un tarlo che rovina tutta questa costruzione propagandistica tesa a dimostrare che mentre gli altri (vedi Matteo Salvini) fanno le chiacchiere, Di Maio fa i fatti che valgono miliardi e miliardi di euro. Questo tarlo è la cosiddetta “congiunzione astrale”. Che instilla nell’opinione pubblica il sospetto che la “Via della Seta” ed il patto con la Cina non sia soltanto un’occasione di sviluppo e di rilancio delle aziende del made in Italy, ma possa diventare, come il famoso stadio della Roma, lo strumento per mettere a miglior frutto la circostanza eccezionale ed irripetibile di ritrovarsi nella stanza dei bottoni del potere.

E se il traffico con la Cina, rivendicato come proprio dal Movimento Cinque Stelle, fosse destinato a diventare l’equivalente di quel traffico con l’Urss che nei tempi della Guerra fredda garantì finanziamenti giganteschi al Partito Comunista Italiano? Nella regola un sospetto del genere non dovrebbe neppure sfiorare la testa dei cittadini italiani. Ma non è stata forse la propaganda giustizialista del Movimento Cinque Stelle e dei suoi sostenitori a trasformare il sospetto nell’anticamera della verità? E non è forse la cronaca dei giorni appena passati ad alimentare la convinzione che se ogni grande opera pubblica italiana, vedi la Tav, è fatta per favorire la solita “banda del buco” dei politici e degli imprenditori corrotti, la “Via della Seta” e dei miliardi sembra realizzata apposta per far scattare la teoria della “congiunzione astrale” in quel mondo grillino che predica la virtù per meglio cedere alle tentazioni della carne e delle mazzette?

L’eccesso di enfasi propagandistica grillina sul patto con la Cina, quindi, è un vero e proprio boomerang. Tutto a causa di quella “congiunzione astrale” che agli occhi degli italiani ha fatto perdere la verginità al Movimento Cinque Stelle trasformandolo non solo in un partito come tutti gli altri, ma in un partito dove la certezza di non poter usufruire all’infinito del potere spinge i suoi esponenti a “peccare fortiter”.

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Redazione26 Marzo 2019

Luigi Di Maio è rimasto molto colpito dall’analisi di Antonio Polito secondo cui il centrodestra è un fantasma che vince ma non esiste.

È facile comprendere l’entusiasmo del capo politico del Movimento Cinque Stelle per la riflessione del commentatore del Corriere della Sera. Quando c’è da consolarsi per l’ennesima sconfitta elettorale Di Maio si aggrappa a qualsiasi argomento, dal sistema elettorale regionale che penalizzerebbe i grillini alla negazione dell’esistenza di una coalizione di centrodestra che vince sistematicamente nelle elezioni amministrative manifestando una concretezza che ossessiona i suoi avversari fino al punto di far vedere loro i fantasmi.

Per Di Maio, dunque, quella di Polito è solo una tesi consolatoria. Ma non è solo per l’esponente grillino che scatta la consolazione. È l’intera sinistra che, invece di piangere sulle sue condizioni di blocco sociale frantumato e privo di idee al passo con i tempi, si rifiuta di prendere atto di un centrodestra che rimane blocco sociale ma che cambia il suo assetto politico in base alle esigenze della società italiana.

Polito ha ragione quando stabilisce che il vecchio centrodestra non esiste più. Al posto dello schieramento che aveva in Silvio Berlusconi il leader incontrastato e nel Pdl la forza trainante, esiste uno schieramento in cui il ruolo del Cavaliere è stato preso da Matteo Salvini e quello del Pdl dalla Lega non più localista ma nazionale e populista. Ma la trasformazione dell’assetto politico interno non ha modificato di una virgola quella del blocco sociale di riferimento. Al contrario, questo blocco non solo si è consolidato di fronte ad una crisi da cui la sinistra non sa come uscire ed i Cinque Stelle tendono ad aggravare con le loro forsennatezze ideologiche, ma si è addirittura allargato a quelle fasce sociali operaie ed a quei ceti meno abbienti ormai convinti che senza lavoro, produzione e sviluppo si perde il benessere dei decenni passati.

Salvini è riuscito ad interpretare le istanze di gran parte di questo blocco sociale. Tuttavia esistono altre componenti espressione di settori specifici della società italiana che hanno altri riferimenti politici (da Forza Italia a Fratelli d’Italia fino al variegato mondo liberale, riformista e popolare), ma che sono indispensabili per dare corpo e peso alla vocazione maggioritaria di questo schieramento. Il centrodestra, in sostanza, è cambiato ma esiste e si presenta come l’unica alternativa possibile all’attuale Governo giallo-verde.

Chi pensa che Lega e M5S potrebbero cambiare il patto in alleanza ed andare insieme alle elezioni politiche sa bene che si tratta di una ipotesi irrealizzabile. Insieme i due partiti perderebbero ciascuno la metà dei propri voti. In politica due più due spesso fa uno e mezzo!