L'Opinione delle Libertà | Arturo Diaconale - Part 23


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Redazione25 Marzo 2019

Secondo i commentatori e gli analisti politici di sinistra il risultato delle elezioni regionali in Basilicata pone un gravissimo problema a Matteo Salvini. Quello di uscire il più presto possibile dalla contraddizione di stare al governo con i Cinque Stelle e conquistare una per una le regioni un tempo rosse con l’alleanza di centrodestra. Costoro hanno dimenticato gli anni della Prima Repubblica quando il Psi stava al governo con la Dc ed il centrosinistra e governava Regioni e Comuni con il Partito Comunista Italiano. Le contraddizioni in politica finiscono quando finisce la convenienza che le determina. Per cui, visto che per la Lega la contraddizione paga, è facile preventivare che non sarà di certo Salvini a rinunciare alla condizione di vantaggio che gli viene dallo stare nel governo nazionale con un Movimento Cinque Stelle in fase di rapida decrescita infelice e conquistare le amministrazioni locali con un centrodestra dove Forza Italia e Fratelli d’Italia conservano un ruolo che sarà pure minoritario ma che risulta indispensabile.

Alla sinistra, che ha scelto come “nemico numero uno” Salvini e non sa vedere altro che le possibili debolezze della propria ossessione, converrebbe guardare con maggiore attenzione alle conseguenze che la terza sconfitta di fila sta provocando all’interno del Movimento Cinque Stelle. Perché Salvini continuerà sulla sua strada senza tentennamenti di sorta. Ma i grillini potrebbero essere indotti a tentare di fermare la loro decrescita infelice rinunciando alla presenza nel governo e puntando a tornare il più rapidamente possibile all’opposizione. Non per tornare a vincere ma, almeno, per fermare il danno che il governismo sta loro provocando.

Nel M5S, in sostanza, cresce la fronda contro Luigi Di Maio e la tesi dell’ala governista fondata sul principio del “fin che dura, fa verdura”. Questa fronda calcola che se un anno di governo ha dimezzato i voti delle ultime politiche, un altro anno in queste condizioni dimezzerebbe anche il dimezzato portando il Movimento alla soglia del 10 per cento. Di qui l’idea di rompere il patto con Salvini il prima possibile e tornare all’opposizione dura ed intransigente per cercare di andare ad ottobre ad elezioni anticipate (prima della legge di bilancio) e bloccare con Alessandro Di Battista, Roberto Fico e magari Beppe Grillo lo sfaldamento in atto.

La sinistra dovrebbe essere interessata alla vicenda. Perché il Partito Democratico ha bisogno di tempo per rigenerarsi e se si andasse a votare dopo l’estate non riuscirebbe a stare in partita e cercare di recuperare i voti andati ai grillini il 4 marzo dello scorso anno.

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Redazione22 Marzo 2019

“Facciamo affari”. È la nuova linea di politica estera del nostro Paese. Quella che viene consacrata con la visita in Italia del presidente cinese Xi Jinping e che appare come la vera caratteristica distintiva del Governo giallo-verde guidato (almeno formalmente) da Giuseppe Conte.

Questa linea, ovviamente, non è nuova. Ma da sottotraccia com’era durante gli anni della Guerra fredda, quando la politica estera era di fatto demandata agli Stati Uniti ed alla Nato e gli affari con i Paesi esterni e magari concorrenti del Blocco Atlantico si facevano sottobanco (quelli della Fiat con l’Urss o quelli dell’Eni con il mondo arabo nazionalista ed anti-occidentale), oggi diventa ufficiale, ostentata e rivendicata come l’unica possibile per chi non può permettersi una politica di media potenza, considera perso lo scudo americano e scopre di essere ai margini dell’Europa che conta.

Fare affari non è un peccato. Soprattutto se si pensa che non esiste una vera alternativa ad una sorte del genere. Perché il disimpegno progressivo degli Stati Uniti iniziato con i presidenti democratici ed ora diventato il tratto distintivo della presidenza Trump non permette di continuare a considerare una certezza rassicurante la presenza dell’Italia nel mondo occidentale. Al tempo stesso, l’egoismo dei Paesi trainanti dell’Europa continentale allenta progressivamente i vincoli politici (ed in qualche caso anche economici) con il Vecchio Continente. Pensare solo agli affari, allora, non solo non è un peccato ma diventa addirittura una necessità obbligata. Finito il lungo tempo delle certezze e delle coperture assicurate dai vincitori della Seconda guerra mondiale, l’Italia scopre di ritrovarsi in mare aperto e torna a navigare seguendo come unica stella polare l’antica vocazione mercantile e commerciale.

Tutto questo, però, avviene ad opera di un governo che deve la fortuna politica di una delle sue componenti alla predicazione dell’identità tra traffici e corruzione e che all’interno dei confini nazionali porta avanti una politica diretta a combattere i fenomeni corruttivi colpendo il più possibile le attività imprenditoriali, commerciali e mercantili.

La contraddizione è marcata, stridente, clamorosa. La politica estera incentrata sugli affari consente di trattare con chiunque, da Xi a Maduro, da Putin a tutti i dittatori arabi ed africani, infischiandosene dei valori della democrazia, dei diritti civili e della tutela di quella civiltà occidentale che è la fonte identitaria di simili valori. La politica interna fondata sulla concezione che dietro ogni attività imprenditoriale si nasconde la peste corruttiva produce la paralisi progressiva dell’economia produttiva del Paese.

Una simile forma di schizofrenia acuta va curata. Al più presto.

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Redazione21 Marzo 2019

“Capitale corrotta, nazione infetta”. L’inchiesta di Manlio Cancogni sulla speculazione edilizia del secondo dopoguerra romano risale al 1955. L’accusa de “L’Espresso” fece grande clamore ed è giustamente entrata nella storia del giornalismo italiano. Ma di risultati pratici ne produsse pochi. Da allora in poi la poltrona più ambita delle giunte comunali di ogni colore rimase sempre quella dell’assessorato ai Lavori pubblici. A dimostrazione e conferma che le speculazioni edilizie a Roma sono sempre rimaste la principale vocazione delle forze politiche provviste di un qualche peso in Campidoglio.

Sulla base di questa esperienza non stupisce l’inchiesta sul costruttore Luca Parnasi impegnato nel progetto dello stadio dell’A.S. Roma che ha portato all’arresto del presidente della Giunta comunale Marcello De Vito con l’accusa di aver ricevuto tangenti per favorire la realizzazione dell’opera. Certe pessime tradizioni sono, evidentemente, più forti di qualsiasi proclama in favore dell’“onestà” e della lotta alla corruzione. Il vero interesse, semmai, scatta per le conseguenze politiche della vicenda. Perché se “Capitale corrotta, nazione infetta” marchiò in maniera indelebile la tendenza ai peccati di corruzione della Democrazia Cristiana della Prima Repubblica, l’arresto di uno dei capi romani del Movimento Cinque Stelle non può non marchiare in maniera altrettanto indelebile la credibilità complessiva del Movimento fondato da Beppe Grillo.

L’espulsione immediata di De Vito non restituisce la verginità morale al partito oggi guidato da Luigi Di Maio. Se la Capitale continua ad essere corrotta per colpa dell’esponente grillino che si era più distinto nel gridare “onestà, onestà” e nell’assumere posizioni di stampo giacobino contro ogni forma di corruzione, si arriva fatalmente alla conclusione che l’infezione riguarda l’intero movimento. Una infezione che è la conseguenza inevitabile di un potere politico conquistato senza esperienza e competenza e che viene gestito nella consapevolezza espressa da De Vito di aver avuto una fortuna destinata a svanire in poco tempo e, per questo motivo, da sfruttare il più velocemente e ferocemente possibile.

È facile prevedere che i vertici nazionali grillini faranno quadrato contro le richieste di dimissioni della giunta di Virginia Raggi. Ma è ancora più facile stabilire che la tesi “Capitale corrotta, M5S infetto” diventerà l’accusa più devastante che il Movimento dovrà fronteggiare da qui ai prossimi anni.

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Redazione20 Marzo 2019

Don Luigi Ciotti è un santo. Magari un santo un po’ anomalo, visto che alle qualità da cui è derivata l’aureola ha affiancato la capacità di creare un’industria della bontà e della legalità che lo ha trasformato nel principale imprenditore italiano della solidarietà umana. Ma, anche se ha a che fare con il profitto e lo sterco del diavolo, sempre santo rimane. E per questa sua santità risulta avvolto da una spessa corazza di presunzione di infallibilità di giudizio. Nel senso che ciò che afferma don Luigi diventa automaticamente verità certa ed indiscutibile.

Capita, però, che ad occhi muniti di lenti laiche non sfuggano i forellini della corazza attraverso cui intravedere che la presunzione di infallibilità dovuta alla santità può nascondere affermazioni e convinzioni al limite della corbelleria. Si può, in questi casi, criticare il santo?

Laicamente non solo si può ma si deve. Soprattutto quando le possibili corbellerie vengono presentate da terzi adoranti in assiomi trasformati in principi di fede. Nel libro che Don Luigi Ciotti ha recentemente pubblicato per edizioni Gruppo Abele (una delle branche imprenditoriali del santo) “Lettera ad un razzista del terzo millennio”, si sostengono tesi assolutamente discutibili sul tema dell’accoglienza. Da quella che rilancia il senso di colpa di un Occidente accusato di aver depredato l’Africa ed i territori del sud del mondo a quella che definisce ipocrita la posizione di chi propone di “aiutare a casa loro” i migranti solo per nascondere la propria assoluta indisponibilità all’accoglienza. Tesi dirette a bollare come razzista chi si permette di rilevare come il manicheismo ideologico renda impossibile comprendere fenomeni storici complessi come il colonialismo europeo ed occidentale molto spesso benedetto dalla Chiesa cattolica e da quella protestante. E, soprattutto, chi osserva che l’accoglienza indiscriminata promossa da Don Luigi diventa la causa primaria del riemergere del razzismo e del sovranismo visto che l’integrazione dei migranti in Paesi sovrappopolati come quelli occidentali può avvenire solo per quote ridotte e controllate.

Insomma, è lecito affermare che il santo non ha sempre ragione? E magari maliziosamente ipotizzare che l’accoglienza senza se e senza ma finisce non solo con il risvegliare il razzismo ma anche garantire una fonte di alimentazione dell’industria della bontà e della solidarietà umana?

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Redazione19 Marzo 2019

L’Isis ha annunciato la sua uccisione definendolo un “crociato” che combatteva contro l’Islam. L’Anpi di Firenze sostiene che si tratta di un combattente per l’eguaglianza e la libertà e si propone di celebrarlo come un partigiano.

Insomma, a stare agli ultimi difensori dello Stato islamico, Lorenzo Orsetti è un nemico mortale della religione di Maometto e, secondo i criteri della sinistra italiana ed internazionale, dovrebbe rientrare nella categoria degli islamofobi, cioè di quelli che rifiutano il dialogo, negano i ponti e lo fanno con tanta convinzione da cercare di eliminare con le armi più islamisti possibile. Secondo i partigiani italiani e la sinistra nostrana, invece, l’islamofobo Orsetti non è un nemico dell’Islam ma solo della sua parte più estremista e va considerato come un eroico erede della tradizione che parte dalle brigate internazionali che in Spagna combatterono contro il franchismo ed il nazifascismo, passa per la Resistenza ed arriva fino ai giorni nostri con chi va in Siria ad impugnare le armi dalla parte della giustizia e della libertà.

Ma nel conflitto siriano dove si trovano la giustizia e la libertà? Dalla parte dei curdi, che sono islamici ma nazionalisti e difensori strenui della propria identità etnica tanto da dover essere considerati dei sovranisti? Dalla parte di Assad, che per restare al potere ha contribuito ad un conflitto che ha provocato un milione di morti, alcuni milioni di profughi e la distruzione totale del proprio Paese? Oppure la libertà e la giustizia sono dalla parte di Putin, che ha approfittato del vuoto lasciato dagli occidentali per assicurarsi presenza e basi navali nel Mediterraneo tanto sognate dagli Zar dei secoli passati? O, viceversa, dalla parte degli Stati Uniti, della Francia e della Gran Bretagna che hanno avviato la guerra contro Assad con la stessa irresponsabilità e con l’identica arroganza di stampo colonialista usata nei confronti della Libia di Gheddafi?

Nessuno conosce bene le motivazioni che hanno spinto Lorenzo Orsetti ad andare a combattere in Siria dalla parte dei curdi. Qualunque esse siano vanno rispettate perché chi perde la vita per le proprie idee ha diritto ad ogni considerazione. Ma il rispetto non può trasformarsi in celebrazione di un modello eroico dalle motivazioni tanto personali quanto apparentemente contraddittorie. Purtroppo grande è la confusione sotto il cielo. E la situazione non è eccellente ma pessima!

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Redazione18 Marzo 2019

C’è stata un’ampia polemica la scorsa settimana per il cartello con sopra la scritta “Dio, Patria e Famiglia: che vita de merda” esibito dall’ex senatrice del Partito Democratico Monica Cirinnà nel corso di una manifestazione. Ma si è trattato di una polemica inutile e ridicola. Che i sostenitori dei valori contenuti nel trinomio avrebbero dovuto evitare. La Cirinnà è convinta che la vita sia più felice se si nega Dio, si cancella la Patria ed alla famiglia tradizionale si preferisce quella aperta o quella, ancora più movimentata, fondata sulla confusione dei generi. Pretendere di cambiare una convinzione del genere non ha alcun senso. La Cirinnà ha tutto il diritto di perseguire la felicità come meglio crede così come hanno lo stesso diritto quanti non la pensano come lei.

Diversa, però, è la faccenda quando, come hanno fatto parecchi sostenitori della esponente della sinistra più tradizionale e come, da buon ultimo, ha affermato il sottosegretario grillino alla Pubblica Amministrazione, Mattia Fantinati, si sostiene che “Dio, Patria e Famiglia” sia uno dei motti coniati da Benito Mussoli per sintetizzare i valori del fascismo.

Qui la polemica ci vuole tutta. E deve essere una polemica da sviluppare, anche con toni aspri, su due terreni distinti. Il primo è quello storico. In cui si deve bollare con l’epiteto di “ignorante come una zucchina” chi non sa che il motto non è stato inventato da Mussolini per marcare il deprecato ventennio ma, quasi cent’anni prima, da Giuseppe Mazzini per indicare che solo attraverso il perseguimento di quei valori sarebbe stato possibile realizzare il Risorgimento d’Italia e l’unificazione politica della penisola. Si può capire che Fantinati, sottosegretario della Repubblica, ignori che la Costituzione repubblicana sia ispirata proprio ai valori indicati a suo tempo da Mazzini. Uno che ha come riferimento il semianalfabeta Luigi Di Maio, il visionario confuso Davide Casaleggio ed il brillante cazzaro Beppe Grillo ha tutto il diritto di pensare che Giuseppe Mazzini sia il padre della grande cantante Mina e non di una Patria, che con gente al Governo dello stampo di Fantinati non può non rendere infelici secondo la tesi della Cirinnà.

Il secondo terreno su cui polemizzare è poi quello sanitario. Perché un conto è l’ignoranza da zucchina dei grillini, che presto o tardi convincerà gli italiani a toglierli dal governo e riportarli alla scuola dell’obbligo, un altro conto è la paranoia di massa di quella sinistra che, in mancanza di una qualsiasi idea, non sa fare altro che vedere e denunciare il fascismo ed il suo ritorno dietro ogni angolo della società italiana, europea, mondiale. Per gli antifascisti ossessivi non c’è altra strada che il ricorso alle cure psichiatriche intensive. O, meglio ancora, alla cancellazione elettorale!

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Redazione15 Marzo 2019

Metti una sera, all’ora di cena, al tavolo di Lilly Gruber, Marco Travaglio, Massimo Giannini e Paolo Mieli che discutono amabilmente con la padrona di casa di quanto sia disgraziato un Paese dove si tengono convegni sui valori della famiglia tradizionale organizzati da associazioni “omofobe e sessiste”, dove regna un clima di destra reazionaria creato ad arte da un razzista come Matteo Salvini e dove un personaggio come il Presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, manifesta la sua mancanza di cultura e di sensibilità politica ripetendo pappagallescamente quanto affermava nell’età giovanile a proposito di un Benito Mussolini capace di nefandezze ma anche di qualche buon risultato.

Una conversazione del genere non colpisce per la sicumera con cui i quattro personaggi manifestano all’unisono un pensiero comune fondato sulla convinzione di essere portatori di una verità assoluta e superiore. E neppure per la certezza inattaccabile di avere come compito nella vita di illuminare con questa verità le menti deboli del volgo inferiore oscurate da credenze sbagliate frutto di ignoranza, incultura e sordide motivazioni politiche.

Ciò che più lascia interdetti è la totale assenza di una qualsiasi voce dissonante, diversa, alternativa. Cioè il disprezzo per la più elementare forma di quel pluralismo delle idee che è al fondamento di quella Costituzione antifascista che troppo spesso viene usata da chi si considera l’aristocrazia illuminata della Repubblica per tappare fascisticamente la bocca agli estranei alla loro casta privilegiata.

L’assenza di pluralismo in una trasmissione televisiva di una emittente privata che da tempo rivendica con insistenza una sua presunta funzione pubblica non può non essere denunciata. Non perché si debba impedire a Lilly Gruber di invitare al tavolo della sua trasmissione solo chi la pensa alla sua maniera. La libertà di opinione prevede anche la libertà di riempire il proprio salotto solo di portatori del pensiero unico di casta. Ma la denuncia serve a ribadire che il servizio offerto da una trasmissione del genere non può essere in alcun modo considerato un servizio pubblico, ma talmente privato da risultare totalmente di parte. E chi vuole la parte, sia pure aristocratica e con la puzza sotto al naso, se la paga!

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Redazione14 Marzo 2019

La cultura che ha prodotto l’elaborazione del reato di femminicidio, cioè di un omicidio rafforzato ed aggravato dal fatto che la vittima è una donna, produce automaticamente la richiesta della pena esemplare da parte della pubblica opinione.

Chi si stupisce e si indigna per le tre recenti sentenze che hanno comminato pene segnate dal riconoscimento di circostanze attenuanti per gli autori di femminicidi è inconsapevolmente imbevuto di questa cultura diventata egemone nella società italiana. Una cultura che è nata dall’esigenza di tutelare e garantire le minoranze in passato conculcate, discriminate e non riconosciute. Ma che si è progressivamente evoluta perdendo il suo carattere originario di strumento di garanzia per categorie sociali meno protette ed assumendo, quasi in reazione alle discriminazioni del passato, forme di prevaricazione sempre più estreme nei confronti di chi non crede che la giustizia debba essere sempre e comunque sbilanciata nei confronti delle minoranze più agguerrite.

Questo tipo di cultura, che può essere definita quella del giustizialismo delle minoranze più forti, è alimentata da un’informazione sempre più portata alla semplificazione scandalistica. Quella che gonfia sempre e comunque le ragioni della pubblica accusa per avere la possibilità di sbattere il mostro in prima pagina ed ignora sistematicamente il caso giudiziario quando il mostro viene riconosciuto innocente al termine del processo. E che si stupisce e si scandalizza, come è avvenuto nei tre casi più recenti, quando al reato di femminicidio non corrisponde la pena esemplare adeguata all’omicidio potenziato ed aggravato dalla natura femminile della vittima.

Chi si è sempre battuto contro la giustizia ispirata al furore popolare alimentato dai media colpevolisti per convinzioni errate e banali interessi commerciali, deve oggi riconoscere che l’unico baluardo contro le sentenze esemplari e la giustizia semplificata della legge del taglione è rappresentato dal lavoro dei giudici togati. Di quelli che hanno il coraggio di applicare la legge senza tenere conto delle pressioni delle minoranze prevaricatrici sostenute da una informazione tanto semplificatrice quanto irresponsabile.

A questi giudici coraggiosi (giudici che nei tre casi in oggetto sono donne) deve andare il plauso e la riconoscenza di chi crede nella giustizia giusta e non vendicativa. Lo stato di diritto è nelle loro mani!

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Redazione13 Marzo 2019

Se la corsa alla segreteria del Partito Democratico fosse stata vinta da Maurizio Martina o da Roberto Giachetti è probabile che la lista unitaria per le elezioni europee ipotizzata da Carlo Calenda tra i democratici e “Più Europa” sarebbe stata realizzata. Ma a diventare segretario con larga maggioranza popolare è stato Nicola Zingaretti. Ed il listone, in cui sarebbe dovuto entrare anche il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, è svanito come neve al sole. La spiegazione ufficiale dice che i tre esponenti di “Più Europa”, il segretario Benedetto Della Vedova, la radicale Emma Bonino e l’ex democristiano Bruno Tabacci, hanno rinunciato all’unità elettorale perché convinti che il loro partito, che comunque nel Parlamento europeo non sarebbe mai entrato nel gruppo socialista ma in quello liberale, supererà il quattro per cento. La spiegazione reale è che Zingaretti non ha alcuna intenzione di mescolare il Pd con altre e diverse formazioni politiche, ma punta a rilanciare il partito puntando sul risveglio della sua anima di sinistra talmente umiliata e bastonata durante l’era Renzi da finire alle ultime politiche a votare in gran parte per il Movimento Cinque Stelle.

Nell’era della egemonia cultura giustizialista la tendenza dominante spinge a giudicare vicende politiche dando ragione agli uni e torto agli altri e stabilendo una differenza tra i buoni ed i cattivi. Ma mai come in questo caso la cultura giustizialista è sbagliata e fuorviante. Perché ad avere ragione sono sia Zingaretti che il trio Della Vedova, Bonino, Tabacci. I due partiti puntano legittimamente ad approfittare del sistema proporzionale delle elezioni europee per recuperare l’identità come il Pd o conquistare identità come “Più Europa”. Per cui non possono essere accusati di un bel nulla tranne che di aver profondamente deluso Carlo Calenda.

Diversa, invece, è la valutazione politica che emerge dal mancato accordo. Una valutazione che vede confermata la constatazione dello spostamento a sinistra del Pd alla ricerca dei voti in libera uscita verso il M5S con conseguenti ripercussioni non solo su “Più Europa” ma anche sull’intero sistema politico nazionale.

Il partito di Della Vedova, della Bonino e di Tabacci potrebbe sfruttare il ritorno al passato post-comunista del Pd zingarettiano cercando di occupare quella parte della sinistra cattolica, liberale e socialista di fatto abbandonata dai democratici. Ma il deficit di identità di un “Più Europa” composto da radical-poltronisti e da un reduce della sinistra democristana rende difficile l’operazione. Al tempo stesso, la conferma che Zingaretti sposta a sinistra il Pd cancella l’ipotesi di un asse Pd-M5S in caso di crisi di governo post-elettorale e libera un vuoto in quel centrosinistra dello schieramento politico che era stato conquistato negli anni passati da Matteo Renzi.

Ci vorrà tempo prima che quel vuoto possa essere colmato. E nel frattempo il Governo giallo-verde potrà continuare a mostrare le proprie divisioni ed a fare danni!

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Redazione12 Marzo 2019

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha svolto per mesi il ruolo di mediatore tra i due vicepresidenti Luigi Di Maio e Matteo Salvini evitando accuratamente di abbandonare la posizione terza che i due partiti della coalizione governativa gli avevano affidato. La vicenda della Tav ha cambiato radicalmente la situazione. Conte si è schierato platealmente a sostegno di Luigi Di Maio e da quel momento in poi ha assunto una posizione sempre più sbilanciata in favore del Movimento Cinque Stelle. Ipotizzare che nell’assumere la sua nuova posizione il Premier abbia voluto far prevalere la sua convinzione sulla inutilità della Torino-Lione è totalmente sbagliato. In passato Conte ha espresso opinioni sostanzialmente diverse da quella presente lasciando intendere di essere più favorevole che contrario all’opera.

Sulla scelta di Conte, invece, ha giocato l’esigenza di scendere in aiuto del “capo politico” del Movimento Cinque Stelle nel momento in cui Di Maio si è trovato in grande difficoltà all’interno del proprio partito. Conte si è mosso non per convinzione personale, ma solo per una precisa ragione politica. Quella di impedire una ennesima sconfitta di Di Maio ad opera di Salvini e bloccare sul nascere una contestazione interna al movimento grillino che avrebbe addirittura potuto costringere il “capo politico” a gettare la spugna.

Con la sua decisione di sostenere Di Maio nella competizione con l’altro vicepresidente, però, Conte ha compiuto un atto destinato a squilibrare pesantemente l’asse del governo. È vero che il Premier non è arrivato a Palazzo Chigi per forza propria ma solo su indicazione del Movimento Cinque Stelle. E che questa “appartenenza” prima o poi doveva emergere con chiarezza. Ma è ancora più vero che in una compagine governativa dove i grillini hanno la maggioranza in forza del loro 32 per cento conquistato alle elezioni, il peso del Presidente del Consiglio che si sposta in maniera decisa dalla loro parte provoca un forte squilibrio. Tanto più che i rapporti di forza delle ultime votazioni politiche non rispecchiano gli attuali rapporti di forza tra i partiti. E la nuova realtà renderebbe assolutamente indispensabile un Conte mediatore piuttosto che un Conte arbitro asservito a Di Maio.

Le ragioni di una prossima rottura, quindi, si arricchiscono di un nuovo fattore!