L'Opinione delle Libertà | Arturo Diaconale - Part 6


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Redazione12 Dicembre 2019

La maggioranza non ha nulla da temere dalla dissociazione di alcuni senatori del Movimento Cinque Stelle. In Parlamento abbondano i “responsabili volonterosi” pronti a sostituire le defezioni grilline pur di continuare a sedere sullo scranno dove sono stati sistemati da sciocchi capi-partito ed evitare la crisi e le elezioni anticipate. Ma a dover temere più di ogni altro è proprio il Movimento Cinque Stelle che incomincia a perdere pezzi non da parte di chi non vuole pagare le quote a Rousseau ma da chi fornisce una spiegazione tutta politica alla scelta di rompere con Di Maio e compagni. Può essere che questi dissidenti scissionisti cerchino riparo direttamente nelle file della Lega o che si parcheggino temporaneamente nel gruppo misto in attesa di nuova collocazione. Ma nel momento in cui usciranno formalmente con una qualche motivazione politica apriranno una crepa nella compagine parlamentare grillina che avvierà una valanga destinata a provocare altre e più gravi lacerazioni nella montagna del popolo pentastellato.

Di Maio può anche cercare di fermare il fenomeno accusando Salvini di aver avviato il mercato delle vacche. Ma sa bene che le “vacche in questione” non sarebbero state mai disposte a vendersi se il Movimento non fosse vicino all’implosione e, conseguentemente, non fosse percorso dal grido inquietante del “si salvi chi può”. Chi ha la possibilità di salvarsi rimanendo fermo nel Movimento perché fa parte del gruppo ristretto che calcola di rientrare in Parlamento anche in caso di forte flessione elettorale, si stringe attorno al Capo politico. Ma chi non ha speranze di sopravvivere politicamente continuando a fare la guardia al bidone bucherellato dei Cinque Stelle incomincia a sganciarsi ed a trovare nuovi punti di riferimento politico.

Siamo di fronte ad una forma di trasformismo moralmente censurabile? Certamente. Ma è singolare che a denunciare questo trasformismo siano coloro i quali hanno fatto dell’intercambiabilità delle alleanze la loro principale caratteristica identitaria. Chi di trasformismo colpisce di trasformismo perisce. Vero Conte? Vero Di Maio?

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Redazione11 Dicembre 2019

Non c’è nulla da scandalizzarsi se i biglietti per la prima della “Tosca” alla Scala di Milano contavano dai 2500 euro della platea ai 700 del loggione. È fin troppo giusto e normale che chiunque voglia partecipare ad un evento super-esclusivo come quello verificatosi nel Tempio dell’Opera il 7 dicembre scorso paghi il prezzo imposto dalla legge della domanda e dell’offerta. Non importa se a motivare questa partecipazione sia stata la passione per Puccini o la voglia di dare mostra di sé di fronte al Presidente della Repubblica, alla telecamere della Rai o ai massimi rappresentanti del cosiddetto bel mondo. E neppure importa se il biglietto sia stato pagato di tasca propria o fatto pagare dalla azienda e società di appartenenza sotto la voce “rappresentanza”. Alla rappresentazione di “Tosca” c’erano i vip dei vip. E chi ha avuto voglia e soldi per andarci ha fatto bene a farlo.

Un motivo, magari non di scandalo ma almeno di riflessione, però, viene posto   dalla platea dei ricchi da 2500 euro a biglietto, una platea che con il suo lungo applauso a Sergio Mattarella non ha voluto manifestare solo rispetto e considerazione per il simbolo delle istituzioni repubblicane ma anche la propria adesione alla cultura dominante rappresentata dall’attuale Capo dello Stato.

Questa platea formata dalla parte più abbiente e colta del cosiddetto ceto medio riflessivo, che vota a sinistra e si considera la parte migliore e moralmente superiore del paese, è quella che attraverso i suoi media politicamente corretti non perde occasione per denunciare l’aumento crescente delle diseguaglianze sociali nel paese e per chiedere che lo stato intervenga per ridurre le distanze tra ricchi e poveri e realizzare una società più egualitaria e più giusta. Certo, non c’è contraddizione tra predicare bene e spendere 2500 euro per un posto all’Opera. Ma il sospetto che la contraddizione ci sia scatta quando poi si deve registrare che è proprio questa parte più abbiente ed esclusiva del ceto medio riflessivo che da un lato chiede l’eguaglianza per mettersi a posto la coscienza e dall’altro si esibisce nel trionfo della diseguaglianza e della propria condizione di casta privilegiata e super-elitaria.

“Tosca”, dunque, è stato un pretesto. Alla Scala è andata in scena l’ipocrisia politicamente corretta!

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Redazione10 Dicembre 2019

“ Verifica” è un termine tirato fuori dall’archivio della Prima Repubblica . Al tempo della legge proporzionale e dei governi di coalizione diventava necessario di tanto in tanto verificare i rapporti della maggioranza di governo del momento ricontrattando le questioni su cui erano sorte tra gli alleati divergenze e contrasti. Ma queste verifiche avvenivano, appunto, di tanto in tanto. Non al ritmo forsennato con cui si verificano attualmente con il governo giallorosso. La differenza è sostanziale. E marca la vera e profonda diversità tra i partiti che nella Prima Repubblica formavano i governi e quelli che nella fase presente hanno dato vita all’esecutivo guidato da Giuseppe Conte.

Nel tempo passato le forze che si legavano da un vincolo governativo fondavano la loro intesa su un impegno politico comune. Che poteva essere per i quadripartito degli anni ’50 la necessità di un fronte unitario contro il pericolo comunista e per le coalizioni di centro sinistra dei decenni successivi la volontà di democristiani e socialisti di realizzare la via europea allo stato sociale in alternativa al socialismo di stato del Pci. Per non parlare degli esperimenti falliti di compromesso storico tra Dc e comunisti motivati dall’esigenza di fare fronte compatto contro il terrorismo delle Brigate Rosse. Ogni coalizione, di qualunque tipo fosse, era fondata su un progetto comunque condiviso. Quello che invece manca totalmente nel governo giallorosso nato per evitare un riscorso alle elezioni anticipate che avrebbe potuto concludersi con la vittoria del centro destra guidato da Matteo Salvini.

In comune tra gli alleati della coalizione odierna, dunque, c’è solo una preoccupazione elettorale. Che è comune solo quando si tratta di esorcizzare il minaccioso fantasma salviniano ma che si trasforma in conflitto tra alleati quando ogni partito si preoccupa della propria tenuta alle prossime elezioni. Saltata l’ipotesi di un patto politico tra Pd e M5S, non esiste un collante della coalizione governativa diversa dalla paura della sconfitta. Di qui lo scontro continuo che impone una verifica altrettanto continua. Sempre più difficile ed estenuante. Non solo per i partiti di governo ma, soprattutto, per il paese!

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Redazione9 Dicembre 2019

Ha avuto ragione Franco Bechis quando ha rilevato che i grandi applausi a Sergio Mattarella alla “Prima della Tosca” alla Scala sono stati tributati da un pubblico formato da votanti del Partito Democratico affiancati dai radical chic del cosiddetto “bel mondo” milanese. Non stupisce, infatti, che la casta elitaria della città più classista d’Italia osanni un Presidente della Repubblica che considera la sua espressione più alta non solo per conformistico ossequio al massimo rappresentante delle istituzioni, ma anche per sintonia culturale e politica nei confronti di un rappresentante di quel progressismo cattolico egemone da alcuni decenni nell’establishment del Paese.

Ciò che stupisce, semmai, è che tutto questo grumo di grande potere si sia potuto radunare all’interno del Teatro alla Scala senza che all’esterno del teatro non ci sia stata una qualche forma di contestazione nei suoi confronti. Nel ’68 “studenti ed operai uniti nella lotta” approfittavano della prima nel Tempio dell’Opera per fornire una immagine tangibile del conflitto in atto nella società italiana tra i figli della piccola borghesia e della classe operaia proiettati verso una società più aperta e l’aristocrazia dei privilegiati decisa a difendere le proprie posizioni di potere. Era una immagine schematica ma fotografava perfettamente la fase di passaggio di una società nazionale che usciva a fatica e tra infiniti contrasti dalle rigidità sociali del passato e si apriva ad una modernità contraddittoria ma vitale.

Ma oggi non ci sono i Mario Capanna di quel tempo. Nella piazza antistante la Scala non c’era nessuno a tirare le uova. Perché oggi chi vorrebbe liberarsi della classe dirigente carica di privilegi accumulati in tanti decenni di potere e di egemonia culturale non è abituato a scendere in piazza, mentre chi sa manifestare le proprie idee solo riempiendo più o meno pacificamente le piazze è schierato oggettivamente in difesa dell’establishment asserragliato dentro la Scala.

Al posto di Capanna, in sostanza, ci stanno le sardine. Che non a caso sono vezzeggiate, blandite, sostenute ed alimentate dal potere dominante e non tirerebbero mai le uova contro i privilegiati in nome di una esigenza di cambiamento della società in quanto espressione e figli dei privilegi.

Il paradosso è forte. Ma è il segno inequivocabile che il compito di promuovere i nuovi tempi spetta alla maggioranza silenziosa.

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Redazione6 Dicembre 2019

Negli Stati Uniti la campagna elettorale per Trump la stanno facendo i democratici con l’ossessione per l’impeachment. In Italia la campagna elettorale per la Lega e, a cascata, per il centro destra, la stanno facendo il Pd ed il M5S con la loro ossessione nei confronti di Matteo Salvini.

Quest’ultimo potrebbe tranquillamente evitare di stancarsi girando per il paese a fare comizi su comizi. Gli basterebbe inviare un twitter al giorno di poche battute, tanto per onore di firma. Perché a lavorare per lui ci pensano quotidianamente tutti i suoi infiniti nemici. A cominciare dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che ha trasformato la dialettica politica in fatto personale e non passa giorno senza lanciare un insulto feroce al suo avversario accusandolo di ogni possibile nefandezza, compresa quella di essere un ignorante patentato che non studia e non si informa sulle questioni di cui parla. Ma Conte, che ha anche annunciato di voler denunciare per calunnia Salvini, è in buona compagnia. Non esiste un solo esponente della maggioranza di governo che pronunci una qualche dichiarazione senza condirla con un riferimento critico o un accusa rovente verso il leader della Lega. Il caso del Ministero dell’Economia Gualtieri è significativo. Considerato tra i più misurati e riflessivi, l’esponente del Pd non ha resistito alla tentazione di lanciare all’indirizzo di Salvini l’accusa di aver aumentato le tasse ed alzato il debito pubblico oltre che di volere l’uscita dall’euro dimenticando che se mai lo abbia fatto non è stato certo da solo ma in compagnia di quel M5S oggi a fianco della sinistra nel governo giallorosso. E, come i politici governativi, non esiste un solo rappresentante del mondo della cultura e dell’informazione politicamente corrette che non condisca le sue osservazioni, opinioni e riflessioni sulla situazione politica concludendo alla Catone che comunque bisogna eliminare Salvini. Non è un caso che questa ossessione della casta politica ed intellettuale abbia prodotto il fenomeno delle sardine, cioè di gente che scende in piazza non per un progetto ma solo per manifestare la propria antipatia personale nei confronti dell’esponente di punta del centro destra.

Quest’ultimo, ovviamente, ringrazia. L’ossessione antiberlusconiana della sinistra ha garantito al Cavaliere più di vent’anni di vitalità e leadership politica. Di questo passo Salvini può anche sperare di battere il record!

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Redazione5 Dicembre 2019

Si scommette sulla sorte del governo. C’è chi punta sulla caduta a gennaio a causa di un pretesto qualsiasi, il Mes, la prescrizione o qualunque altra questione come l’ex Ilva o l’Alitalia su cui possa scoppiare un litigio tra gli alleati di governo. E c’è chi punta sulla sopravvivenza per almeno un altro anno dando per scontato che, con una giusta dose di rinvii e compromessi al ribasso, la maggioranza riesca a scavallare il 2020 anche a dispetto delle probabili sconfitte elettorali in Emilia-Romagna ed in Calabria e nelle altre regioni dove si andrà a votare nella tarda primavera.

Il fatto che si scommetta sulla durata dell’esecutivo costituisce una prova tangibile della estrema precarietà del Conte-bis. Se fosse solido nessuno affiderebbe ai dadi la previsione sulla sua durata. Ma accanto a questa circostanza c’è una seconda e più importante ragione che alimentano i più oscuri presagi sulla compagine ministeriale giallorossa. Si tratta della perdita progressiva delle motivazioni che avevano giustificato la nascita dell’attuale esecutivo.

Come si ricorda il Conte-bis è nato per scongiurare elezioni anticipate che avrebbero assicurato la sicura vittoria di Matteo Salvini, per evitare l’aumento dell’Iva , per arrivare alla scadenza del settennato presidenziale di Sergio Mattarella ed avere la possibilità di eleggere un Presidente sempre espresso dalla sinistra ed, infine, per avviare un processo di alleanza organica ed irreversibile tra Pd e Movimento Cinque Stelle.

Di tutte queste motivazioni neppure quella dell’antisalvinismo è ancora in piedi. Perché è vero che con il governo giallorosso sono state evitate le elezioni anticipate ma è ancora più vero che, grazie alla inerzia ed alla incapacità del governo, la Lega continua a volare nei sondaggi e, soprattutto, è riuscita a ricucire quella alleanza di centro desta che sembrava irrecuperabile e che è largamente maggioritaria nel paese. Accanto a quella antisalviniana tutte le altre motivazioni sono svanite miseramente. L’aumento dell’Iva è stato evitato ma a prezzo di una manovra ridicola e vessatoria che riesce addirittura a far pensare che sarebbe stato più conveniente per il paese ed i cittadini ritoccare selettivamente l’imposta sui consumi piuttosto che puntare ancora una volta su tasse e manette. L’eventualità che questo Parlamento possa esprimere un Presidente della Repubblica proveniente dalla sinistra appare sempre più avventurosa e complicata vista la tendenza all’isolamento identitario del M5S. Ed infine l’alleanza organica tra Pd e grillini è fallita prima ancora di nascere lasciando nella disperazione i teorici di questa innaturale e inattuabile fantasia politica.

Per quale ragione, allora, il governo giallorosso rimane in carica? In campo rimane una sola motivazione. Quella di fare danni!

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Redazione4 Dicembre 2019

Il governo giallorosso del Conte-bis segna il passaggio dalla politica intesa come arte del compromesso alla politica diventata arte del rinvio. La ferma determinazione del Premier nel difendere a spada tratta il Mes ribadendo che il testo dell’intesa salva-stati non sarebbe stato mai modificato, è diventata l’annuncio della propria disponibilità al rinvio della questione. A quando? Non prima di gennaio, dopo che il Ministro dell’Economia Gualtieri, altro difensore ad oltranza della intangibilità dell’accordo, non avrà trattato con la Ue qualche aggiustamento alle clausole del trattato pseudo-immodificabile.

La contorsione di Conte, ovviamente, trova una giustificazione nella necessità di non far cadere il governo contro l’ostinazione del M5S ad imporre la propria volontà tesa a rivedere il Mes all’alleato Partito Democratico, attestato come sempre ad oltranza sull’europeismo acritico. Ma l’arte del rinvio non si ferma al salva-stati. Dell’Ilva, ormai, non si parla più. Perché anche la soluzione della questione è stata rinviata a data da destinarsi e la grande stampa compiacente si è subito messa a disposizione del governo per mettere la sordina alla questione dell’acciaieria tarantina. Anche in questo caso il rinvio ed il silenzio sono motivati dalla esigenza di non mettere in difficoltà il governo. E l’Alitalia? A che serve il prestito-ponte di 400 milioni se non a rinviare nel tempo un problema a cui non si è saputo dare una qualsiasi risposta? Con l’ennesimo stanziamento del governo si andrà avanti ancora qualche mese. Poi, evitato l’inciampo immediato, si vedrà. Magari con un nuovo prestito-ponte in attesa di qualche volonteroso gestore disposto a tirare fuori dal fuoco le castagne lasciate bruciare dall’esecutivo.

L’elenco, com’è noto, può andare avanti all’infinito. Con le grandi opere, la gronda di Genova e tutti i casi di aziende in difficoltà paralizzate dall’arte del rinvio di un governo obbligato dalla propria inerzia e dalle proprie contraddizioni a gettare sempre la palla in tribuna non sapendo come debba e possa essere giocata.

Ma quando si fischia la fine della partita? Domandare all’arbitro del Quirinale!

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Redazione3 Dicembre 2019

La decisione di Matteo Renzi di non far partecipare la delegazione di Italia Viva all’ultimo vertice di maggioranza, quello dedicato al Mes, costituisce una oggettiva presa di distanza dalla maggioranza. Non siamo alla dissociazione ma al segnale che una rottura ed una uscita dal governo della componente renziana potrebbe non essere affatto lontana.

Fino ad ora si è dato per scontato che Renzi non avrebbe mai fatto saltare un Conte-bis di cui era stato l’artefice decisivo. E che avrebbe continuato a restare in maggioranza approfittando della presenza al governo per distinguersi in continuazione rispetto al Pd ed al Movimento Cinque Stelle e far crescere il proprio neonato partito in attesa di una legge elettorale proporzionale.

Ma su questa considerazione apparentemente granitica si sono abbattute due novità che potrebbero ben presto sgretolarla. La prima è che il Pd di Nicola Zingaretti ha capito che l’unico modo per sopravvivere e cercare di acquisire i voti della parte più di sinistra del M5S è riesumare il bipolarismo tradizionale tra destra e sinistra e puntare ad una legge elettorale maggioritaria cancellando ogni ipotesi di ritorno al proporzionale. La seconda è che nei confronti di Renzi e di Italia Viva è partita una offensiva giudiziaria che azzera la strategia della permanenza nel governo per logorare il Pd e radicarsi nel paese in attesa del momento migliore per staccare la spinta ed andare alle elezioni.

Senza più la speranza di ottenere una legge proporzionale e con la prospettiva di venire progressivamente logorato da una azione giudiziaria chiaramente diretta a cancellare Italia Viva dal quadro politico nazionale, Matteo Renzi non ha più alcun interesse a rimanere in un governo che agli occhi del paese sta battendo ogni record di incapacità e di inefficienza. Se in precedenza il sostegno a Conte gli assicurava il tempo necessario per crescere e rafforzarsi, ora per l’ex Premier la situazione si è ribaltata. Il tempo e la permanenza nel governo non giocano più a suo favore ma, con la persecuzione giudiziaria in corso, rappresentano i pericoli maggiori posti sulla sua strada. Altro che crescere e rinforzarsi! Più va avanti a sostenere un governo squalificato e più cresce l’offensiva dei magistrati, più diventa complicato non solo acquisire nuovi consensi ma addirittura conservare quelli acquisiti.

Nessuno stupore, allora, se a gennaio Renzi dovesse staccare la spina. Per lui meglio andare al voto subito e consolidare l’esistente piuttosto che accettare in sorte una morte lenta e dolorosa!

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Redazione2 Dicembre 2019

Non stupisce affatto che Paolo Gentiloni sia sceso in campo per difendere a spada tratta l’accordo sul fondo Salva-Stati escludendo tassativamente che da questa intesa possa scaturire qualche forma di rischio per l’Italia. L’ex Presidente del Consiglio non poteva comportarsi in maniera diversa. Sarebbe stata una singolare bizzarria se il suo esordio nella sua qualità di nuovo Commissario Europeo per l’economia fosse stato segnato da una critica nei confronti del Mes che avrebbe fatalmente assunto l’aspetto di una immediata dissociazione da quella Commissione in cui è appena entrato.

Ma se l’atteggiamento di Gentiloni è comprensibile, quello del Partito Democratico lo appare molto di meno. Non avendo partecipato alla trattativa sul fondo Salva-Stati compiuta dal precedente governo giallo-verde, il partito di Nicola Zingaretti avrebbe oggi potuto legittimamente porsi in posizione polemica nei confronti dell’intesa. Invece ha scelto la strada opposta della piena e totale difesa non solo della conclusione raggiunta dal negoziato ma del negoziato stesso, come se a condurlo non fosse stato il Conte nella passata versione dell’alleanza con la Lega ed il Conte nella presente versione giallorossa ma lo stesso Partito Democratico graniticamente fermo nel suo europeismo ad oltranza.

In questo atteggiamento, infatti, non c’è solo la decisione di Zingaretti di attribuire al Pd il ruolo di unica forza responsabile che ha l’obbligo di tenere a freno l’irresponsabilità degli alleati e garantire la sopravvivenza del governo. C’è anche e soprattutto la scelta strategica del Pd di considerare l’europeismo come il suo principale ed ormai quasi unico tratto identitario.

Buffa sorte quella degli eredi del Pci e della sinistra democristiana, passati dalla feroce contestazione di un tempo nei confronti di una Unione Europea bollata come bastione del capitalismo e dell’imperialismo americano a tratto distintivo di un partito che, persa la sua originaria matrice ideologica, ha scelto l’europeismo acritico come unica bandiera per marcare la propria natura.

Oltre che buffa, però, questa posizione è anche inevitabilmente ottusa. Perché attestarsi sempre e comunque in difesa di ciò che la Ue chiede espone il Pd al rischio di assumere agli occhi degli italiani il ruolo di partito degli euroburocrati o, peggio, degli interessi delle banche tedesche.

Un finale decisamente tragico per chi era nato come avanguardia della classe operaia!

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Redazione29 Novembre 2019

Salvini minaccia Conte di denunciarlo alla magistratura per aver concordato con la Ue l’intesa sul Salva Stati che rappresenta un gravissimo danno per il paese. A sua volta Conte replica  minacciando il leader leghista di querelarlo per averlo accusato ingiustamente e lo sfida a rinunciare all’immunità parlamentare e presentarsi in Tribunale a rispondere della sua calunnia.

Ma annunciare una denuncia è diverso dal presentare una denuncia. E la stessa differenza vale tra l’annunciare una querela per calunnia e presentare una denuncia per calunnia. Gli annunci sono delle intimidazioni. Ed in politica è pratica ricorrente enfatizzare le minacce per intimorire gli avversari e raccogliere consensi.

C’è una grande dose di strumentalità, quindi, nel duello ingaggiato tra il Presidente del Consiglio ed il leader dell’opposizione. Una strumentalità che però alimenta il rischio che l’eccessiva personalizzazione della vicenda possa far passare in secondo piano le due questioni principali poste dall’accordo con la Ue sul Salva Stati. La prima è se questo accordo, da chiunque sia stato discusso e da chiunque venga firmato, serva al nostro paese in termini di utilità pratica e politica. La seconda è se la cosiddetta benevolenza dell’Europa nei confronti dell’attuale governo e dell’attuale Presidente del Consiglio dipendano dalla promessa che l’Italia avrebbe comunque firmato l’intesa.

L’auspicio è che il dibattito previsto per l’inizio della prossima settimana alla Camera non ruoti attorno alla rissa personale tra Conte e Salvini ma contribuisca a chiarire a chi serve il Mes. Al paese o al governo giallorosso?

Il sospetto che serva più a Conte ed alla coalizione tra Pd e M5S piuttosto che all’Italia è forte. Un accordo che prevede il versamento di 14 miliardi e mezzo da parte del nostro paese in un fondo salva stati a cui non si potrà mai accedere a causa della clausola che esclude tra i beneficiari gli stati che non hanno i conti pubblici a posto, non sembra motivato da ragioni economiche ma solo da quelle politiche. Cioè dall’esigenza dell’attuale esecutivo di ottenere in cambio dai poteri forti europei quella benedizione e quel sostegno che rappresentano il suo principale puntello politico.

La questione è in questi termini? La risposta spetta al Presidente del Consiglio che non potrà evitarla puntando sul clamore della rissa personale con Salvini. A Conte il gioco è riuscito all’atto della caduta del suo primo governo ed alla nascita del secondo. Non può riuscire in eterno!