Redazione | Arturo Diaconale - Part 5


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Redazione20 Gennaio 2020

Bisogna dare atto a Goffredo Buccini di grande onestà intellettuale per aver sottolineato come nella discussione sulla figura politica di Bettino Craxi non siano stati affrontati temi, come quelli del finanziamento della politica, dei rapporti tra quest’ultima e la magistratura e la strettissima contiguità tra magistrati e giornalisti durante gli anni di Mani Pulite. Ma è necessario anche ammettere come appaia estremamente improbabile che dalle polemiche sulla presunta riabilitazione del leader socialista possa scaturire una riflessione complessiva sulla cosiddetta “rivoluzione giudiziaria” degli anni ’90.

Chi ha dato degli eventi di quel tempo una lettura divergente da quella politicamente corretta secondo cui l’unica chiave per raccontare la storia del secondo dopoguerra italiano è quella criminale, non ha alcuna difficoltà a ribadire che ai danni di Bettino Craxi e dell’intera classe politica democratica venne compiuto un colpo di stato post-moderno per mano di magistrati, giornalisti e poteri forti interessati a consegnare alla sinistra post-comunista ed al cattolicesimo progressista l’asse politico del paese. Ma chi ha avuto il coraggio di andare controcorrente allora si trova in minoranza anche adesso. Perché gli eredi della tradizione comunista e quelli della tradizione cattolico-progressista conservano il potere proprio sulla base del lascito avuto in eredità dalla rivoluzione giudiziaria della fine del secolo scorso. E sono perfettamente consapevoli che se solo si aprisse una discussione sulle tante questioni irrisolte di quegli anni, si spalancherebbe una voragine in cui cadrebbero in maniera rovinosa ed irreparabile la loro posizione, il loro ruolo e, soprattutto, i metodi usati per conservarli il più a lungo possibile.

Se a Craxi venisse riconosciuto di essere stato vittima dell’uso politico della giustizia, si dovrebbe automaticamente ammettere che vittima dell’identico meccanismo è stato negli anni successivi Silvio Berlusconi e che oggi l’ultimo bersaglio di un giustizialismo ottuso e feroce è quel Matteo Salvini che nell’impossibilità di battere nelle urne si vuole togliere di mezzo a colpi di processi politicizzati.

Come rompere questa spirale perversa che da trent’anni condiziona la vita pubblica del paese? Non basterà vincere le elezioni. Bisognerà soprattutto vincere la fase di governo successiva  a colpi di riforme radicali!

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Redazione17 Gennaio 2020

L’aspetto più singolare della decisione della Consulta di bocciare il referendum chiesto dalla Lega per cancellare ogni quota proporzionale alla legge elettorale e realizzare un maggioritario puro, è costituito dall’entusiasmo manifestato da Luigi Di Maio per la decisione della maggioranza di governo di puntare al ritorno al proporzionale corretto da uno sbarramento del cinque per cento.

Il Capo politico del Movimento Cinque Stelle ha inneggiato alla decisione della Corte Costituzionale come se l’archiviazione del maggioritario e la ripresa del proporzionale garantisse lunga e florida vita al proprio partito.

Può essere che la soddisfazione di Di Maio sia dipesa solo dal piacere per il dispetto fatto a Salvini. Ma se oltre a questo sentimento infantile il leader grillino nutre anche la convinzione che il proporzionale riesca a blindare l’M5S , c’è seriamente da dubitare sulle sue capacità politiche. Non solo perché nessun sistema elettorale è in grado di fornire garanzie a qualsivoglia partito. Ma soprattutto perché il movimento grillino, nel momento in cui la sua parabola vira verso il basso, ha tutto da perdere e nulla da guadagnare dal ritorno al sistema della Prima Repubblica.

Nella sua fase ascendente il Movimento non ha usufruito del meccanismo maggioritario presente nella attuale legge elettorale e, puntando solo su se stesso, ha esercitato una forte attrazione su una larga fetta trasversale dell’elettorato. Nella sua fase discendente rischia ora di perdere la capacità attrattiva e, senza la possibilità di stabile alleanze con i partiti oggi alleati nel governo ma domani tenaci concorrenti, pare votato a raccogliere una rappresentanza estremamente ridotta.

Chi sostiene che il voto del 26 gennaio in Emilia-Romagna possa fornire una indicazione precisa sulla reale consistenza numerica del movimento grillino compie sicuramente una forzatura. Da sempre l’M5S risulta sottodimensionato nella amministrative rispetto alle elezioni politiche. Ma se questa è una forzatura, lo è anche quella che vorrebbe negare ogni valore al prossimo voto regionale. L’Emilia-Romagna indicherà la tendenza del consenso grillino. E se risulterà sotto il 10 per cento suonerà come una campana a morto per la speranza di Di Maio di salvarsi con il proporzionale. Un M5S nazionale poco sopra il 10 sarà condannato ad una opposizione da cui non verrà salvato da un Pd fermo al 20 per cento. Insieme non saranno mai più maggioranza. E dovranno guardarsi, nel perimetro della sinistra, da una Italia Viva sempre più decisa a caratterizzarsi come forza riformista rispetto al partito di Zingaretti e di Franceschini.

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Redazione16 Gennaio 2020

Nessuno è riuscito a capire quale sia stato il risultato della riunione conventuale del gruppo dirigente del Pd svoltasi in Sabina nei giorni scorsi. Nei propositi ufficiali della vigilia avrebbe dovuto dare il via ad un processo di profondo rinnovamento del partito guidato da Nicola Zingaretti avviando un percorso che avrebbe dovuto portare ad un congresso primaverile destinato a dare un nuovo volto ed una nuova linea politica alla formazione politica erede delle tradizioni comunista e cattolico progressista.

Ma simili propositi non sono stati affatto precisati. Forse si farà un congresso. Forse si procederà ad un nuovo assetto di vertice, segretario compreso. Forse si procederà alla elaborazione di una strategia in grado di rilanciare il partito. Dietro tutti questi forse, però, non c’è alcuna certezza. Tranne l’ammissione un po’ ingenua che attraverso la riforma del sistema elettorale e l’introduzione del proporzionale con lo sbarramento al cinque per cento il Pd, che nel frattempo vuole continuare nell’alleanza con il Movimento Cinque Stelle e mantenere in vita il governo il più a lungo possibile, conta di arrivare al momento delle elezioni per operare una sorta di Opa ostile nei confronti dell’elettorato grillino e ritornare ad essere il partito a vocazione maggioritaria della sinistra.

Come dovrebbero reagire i dirigenti del M5S di fronte a questa sfrontata ed arrogante intenzione di approfittare della crisi grillina per fare un solo boccone dell’attuale alleato? La risposta è già venuta dal vice ministro Buffagni, che ha escluso tassativamente ogni ipotesi di alleanza organica tra grillini e democrats. Ma è fin troppo evidente che i propositi sfrontati e le risposte esaustive fanno parte di un gioco diretto a tenere buone le componenti interne dei due partiti in attesa del momento della verità atteso per la fine della prossima settimana.

Questo momento è quello in cui si conoscerà il risultato delle elezioni in Emilia Romagna. Un eventuale esito negativo per Pd e M5S manderà all’aria ogni tipo di strategia trasformando di colpo l’ipotesi di elezioni politiche generali anticipate nell’unica via di rilancio disperato dei due partiti.

È comprensibile, allora, che la riunione conventuale non sia servita a nulla. Tranne che a misurare la febbre con brividi che sale all’interno del Pd in attesa del voto emiliano-romagnolo. Una febbre che può portare al collasso. Sia del partito che del governo.

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Redazione15 Gennaio 2020

Se l’antisemitismo viene dal mondo dell’estrema destra la condanna, l’indignazione e l’esecrazione sono totali. Senza nessun tipo di distinguo o di attenuante. Il chè è assolutamente sacrosanto poiché questo tipo di antisemitismo si fonda sulla negazione dell’Olocausto, cioè di un evento storico che non può essere messo minimamente in discussione. Quello di una “soluzione finale” che non è stata il frutto di una finzione cinematografica, come forse può venire in mente ai più distratti delle nuove generazioni, ma di un progetto discusso, analizzato e messo in pratica dal gruppo dirigente nazista con larghezza di mezzi, teutonica meticolosità e precisione scientifica.

Questo tipo di antisemitismo di estrema destra è irreale perché si ostina a non riconoscere una pagina di storia inequivocabile. Ma accanto ad esso c’è un alto tipo di antisemitismo, quello proveniente non da una minoranza ma da una parte considerevole della sinistra, che celebra i morti ebrei del passato ma non ha alcuna esitazione a creare un clima di discredito, insofferenza e rigetto degli ebrei del presente simile a quello che negli anni ’30 preparò il terreno per la “soluzione finale” dei primi degli anni ’40. Le similitudini tra le due forme di antisemitismo, quello che vive nel passato e quello che opera nel presente, sono numerose. Allora gli ebrei erano l’espressione dell’alta finanza capitalistica e metterli fuori gioco avrebbe favorito l’avvento di una società senza dislivelli sociali e sfruttamenti ma egualitaria e solidale. Oggi sono gli scherani del capitalismo e dell’imperialismo occidentale e toglierli di mezzo non solo servirebbe a rendere attuabile il ricorrente mito della società dell’uguaglianza e della solidarietà ma aiuterebbe a realizzare la pace in quella parte del mondo, il Medio Oriente, dove la loro presenza è un focolaio di guerra, morte e distruzione.

L’antisemitismo di destra non ha rispetto per gli ebrei morti, quello di sinistra non ha alcuna esitazione a portare avanti battaglie politiche dirette a promuovere la cancellazione di Israele dalla carte geografica del Medio Oriente. Sia il primo che il secondo sono l’espressione di un pensiero criminale. Con la differenza che mentre il primo è espressione di una demenzialità rivolta al passato, il secondo è tutto proiettato sul presente e punta sulla eliminazione di Israele, paese dove vivono circa sei milioni di ebrei, e non suscita reazioni negative di sorta.

Ma perché battersi per un Olocausto di ebrei viventi dovrebbe essere meno condannabile della negazione di quello del passato?

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Redazione14 Gennaio 2020

L’attesa principale del 26 gennaio non è sull’esito della sfida tra Lega e Pd per il prossimo Presidente dell’Emila Romagna ma sulla percentuale dei consensi che il Movimento CInque Stelle riuscirà a portare a casa.

Naturalmente, avrà un grande rilievo politico scoprire se il centro destra riuscirà a soppiantare la sinistra nella regione che dalla fine della guerra è la più “rossa” d’Italia e dove il comunismo e post-comunismo è diventato un modello di amministrazione di stampo socialista in un contesto altamente capitalistico. Ma non è affatto scontato che in caso di sconfitta del Pd e vittoria del fronte moderato l’effetto immediato sia la caduta del governo giallorosso guidato da Giuseppe Conte. Anzi, se fosse solo questo l’interrogativo che grava sul voto in Emilia-Romagna, si può tranquillamente dare per scontato che neppure la più bruciante delle sconfitte riuscirebbe a far saltare il quadro politico nazionale. Se l’unico collante del Conte-bis è la paura di elezioni anticipate destinate a portare al governo la destra, figuriamoci se la conferma della estrema concretezza di tale paura sarebbe mai in grado di  mandare a casa chi ha trasformato il terrore per l’avvento degli avversari il motivo primo della propria esistenza politica.

Il risultato dei Cinque Stelle, invece, è l’unico fattore che potrebbe avere come conseguenza l’aggiramento ed il superamento di tale motivo. Per la semplice ragione che al terrore per la caduta della coalizione giallorossa farebbe subentrare nel gruppo dirigente grillino il terrore per la scomparsa incombente del proprio movimento. Un risultato del M5S inferiore al 10 per cento avrebbe il suono di una campana a morto per la creatura che Beppe Grillo ha lanciato proprio da Bologna con il “vaffa day”. E la prova del nove del decesso in atto renderebbe inarrestabile il processo di implosione che sta andando avanti da tempo all’interno dei gruppi parlamentari e che, una volta concluso, porterebbe automaticamente alla fine del governo di Giuseppe Conte.

Il 26 gennaio, dunque, attenti al risultato dei grillini. Il futuro a breve dipende da quanto alto sarà il “vaffa” che gli elettori emiliani e romagnoli daranno a Grillo, Di Maio, Casaleggio e soci!

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Redazione13 Gennaio 2020

Sabato sera i gufetti che avevano soppiantato i tordi sugli alberi dei Lungotevere sono stramazzati al suolo. La Protezione animale, prontamente accorsa, ha sentenziato che a provocare lo straordinario fenomeno non era stata una improvvisa epidemia aviaria ma il risultato di Lazio-Napoli. I gufetti, semplicemente, non avevano retto il fallimento dei loro malocchi.

Molti di questi gufetti erano provenienti dal Nord e speravano in un passo falso dei biancocelesti in grado di favorire la corsa verso il vertice della classifica delle squadre settentrionali. Altri venivano dalla sponda romana occupata dai “cugini” (a proposito, auguri sinceri di pronta guarigione a Nicolò Zaniolo) ed avevano motivazioni più che comprensibili. Un piccola parte, infine, era composta dagli ultimi esemplari degli aquilotti gufizzati. Cioè di quel sempre più ridotto numero di laziali masochisti che se non piangono, criticano e si lamentano non si divertono. E che avevano prima preso a pretesto la battuta sulla “Lazietta” per pronosticare la fine dell’avventura dei ragazzi di Inzaghi senza capire che il termine non voleva essere una valutazione di merito sulle squadre del passato ma solo la constatazione di come gli avversari consideravano la società di quelle epoche.

Poi si erano inalberati per la definizione “occasionale” data dal Presidente Claudio Lotito allo scudetto del ’74 senza rendersi conto che proprio l’occasionalità ha reso l’evento eccezionale, straordinario, meraviglioso ed ha trasformato i suoi artefici nei simboli dell’orgoglio laziale. E, infine, si erano fatti venire il mal di pancia per i riferimenti, sempre del Presidente, allo scudetto del 2000, diretti non a criticare i campionissimi dell’epoca ma a rilevare che la finanza applicata al calcio può portare a risultati importanti ma può anche produrre fallimenti completi. La finanza è, per definizione, un rischio.

Naturalmente la scomparsa dei gufetti è solo temporanea. Presto o tardi torneranno. Per questo i tifosi laziali hanno il dovere di stare con i piedi ben saldi per terra. Senza però rinunciare alla libertà di sognare e di volare in alto!

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Redazione13 Gennaio 2020

Se l’antisionismo è frutto diretto dell’antisemitismo, l’antiamericanismo è la conseguenza immediata dell’antioccidentalismo. Separare l’odio per Israele dall’odio per gli ebrei è impossibile. E lo stesso vale si se vuole separare l’odio per gli Stati Uniti dall’odio per il mondo Occidentale ed i suoi valori.

Riflettere su queste banali e scontate considerazioni è indispensabile nel momento in cui nel nostro paese cresce con veemenza una ventata di antiamericanismo che  non ha avuto precedenti neppure negli anni della divisione del mondo in due blocchi. Quello che si rifletteva in Italia nella contrapposizione obbligatoria tra una maggioranza di anticomunisti di diversa estrazione e natura ed il fronte comunista più grande di tutti i paesi non controllati dall’Armata Rossa.

Paragonare i risultati delle elezioni del ’48 e di tutte quelle successive ai dati del sondaggio sull’opinione degli italiani relativa alla eliminazione del generale iraniano, Soleimani, guida suprema di tutte le organizzazioni terroristiche dell’estremismo scita in Medio Oriente ed in Africa, colpisce per la singolare novità che introduce. Sulla base di questo sondaggio, infatti, il cinquanta per cento dei nostri connazionali non giustifica l’eliminazione ma condanna ed aborra quello che viene considerato un assassinio fuori da ogni principio morale e legge internazionale.

Non è il confronto con le elezioni del passato ad evidenziare l’esistenza di un antiamericanismo in crescita in Italia? Bene, si faccia un diverso paragone. E si metta a confronto l’esecuzione di Osama Bin Laden con quella di Soleimani. La prima  venne salutata come una liberazione dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica e la seconda viene considerata da un significativo cinquanta per cento un bieco assassinio.

A fare la differenza c’è che a decidere l’eliminazione di Bin Laden era stato Obama con a fianco Hillary Clinton mentre a dare l’ordine letale per il generare iraniano è stato Trump? Cioè che l’antiamericanismo dipende dall’antipatia per l’attuale Presidente Usa?

La realtà e ben diversa da questa analisi-spazzatura. L’antitrumpismo viene dopo l’antiamericanismo e quest’ultimo è la conseguenza diretta dell’intreccio contemporanea di più culture tutte segnate da una forte avversità nei confronti dell’Occidente e dei suoi valori di libertà, democrazia e della sua natura identitaria figlia di una storia di tremila anni.

La vulgata post-comunista lasciata in eredita dall’egemonia culturale della sinistra è parte considerevole di questa fenomeno. Ma accanto ai nostalgici che ancora piangono per il risultato del ’48 e quelli, della parte avversa, che non hanno ancora metabolizzato la sconfitta del ’45, figura un cattolicesimo progressista rilanciato da Papa Bergoglio che si oppone all’umanesimo liberale in nome di egualitarismo pauperista  da stato gesuita paraguaiano del ‘600.

Il blocco antiamericano in quanto antioccidentale è molto ampio e forte. Ma ha una debolezza di fondo. Caduto il modello del socialismo reale ed essendo irrealizzabile quello vetero-gesuita non ha nulla da contrapporre. Oggi l’alternativa al modello occidentale non esiste. A meno di non considerare tali il modello comunista cinese o quello teocratico islamico iraniano!

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Redazione10 Gennaio 2020

Non sembra essere una grande operazione politica quella compiuta dai quattro senatori di Forza Italia di osservanza carfagnana di ritirare le firme dalla richiesta di referendum sulla legge per il taglio dei parlamentari. Ufficialmente la spiegazione che i quattro hanno dato al loro ripensamento è che non si sono voluti prestare alle strumentalizzazioni di chi voleva usare la minaccia del referendum per aprire il più presto possibile la crisi ed andare ad elezioni anticipate sfruttando la vigenza della vecchia legge per avere più possibilità di rientrare in Parlamento.

Nella realtà la motivazione nobile, che poi sarebbe quella di non tradire il taglio dei parlamentari, nasconde l’interesse concreto di consolidare governo e legislatura per continuare ad usufruire per i prossimi tre anni dei benefici dello scranno parlamentare.

Questo interesse può essere considerato anche legittimo ma non ha nulla di nobile. E, soprattutto, costituisce un pessimo avvio per chi , come la componente di Forza Italia seguace di Mara Carfagna, avrebbe , almeno a parole, l’ambizione di reagire alla crisi del partito di Silvio Berlusconi ritagliandosi un ruolo politico autorevole e significativo. Quello di ponte tra l’area liberale del centro destra  e quella del centro sinistra che al momento è rappresentata da Italia Viva di Matteo Renzi.

Con la loro scelta, infatti, i carfagnani si sono rivelati dei semplici “responsabili” alla Scilipoti dell’attuale legislatura.  O, se vogliamo, i nuovi Alfano e Verdini, disposti a compiere ogni possibile capriola pur di puntellare un governo che fa acqua da tutte le parti ed evitare una crisi da cui potrebbero venire fuori solo uscendo dalla scena politica e tornare alla vita privata di un tempo.

Nessuno contesta il diritto di questi parlamentari forzisti di perseguire con ogni mezzo l’obbiettivo della propria sopravvivenza politica. Ma è proprio l’esperienza passata degli Scilipoti, degli Alfano e dei Verdini ad indicare che la strada dei “responsabili” non apre scenari futuri ma serve esclusivamente a prolungare la propria permanenza del Palazzo al prezzo pesante dell’accusa di essere dei voltagabbana per bieco interesse personale.

I valori liberali, sia ben chiaro, con “responsabili” di tale conio non c’entrano un bel nulla!

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Redazione9 Gennaio 2020

Singolare pretesa quella del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte di convocare a Palazzo Chigi nello stesso giorno i due esponenti che si contendono armi alla mano il controllo della Libia. Conte ha ricevuto in mattinata il generale Haftar ed avrebbe voluto incontrare nel pomeriggio il premier del governo di Tripoli Al Serraj. Ma quest’ultimo, dopo aver saputo che il suo rivale aveva avuto un colloquio di tre ore con il capo del governo italiano, ha fatto marcia indietro ed ha lasciato Conte ad aspettarlo invano per tutto il resto della giornata.

Si è trattato di un incidente diplomatico dovuto ad un eccesso di suscettibilità di Al Serraj? Per carità di patria si può anche adottare questa tesi. Ma se non si ha il timore di prendere atto della realtà, non si può fare a meno di rilevare che quanto è avvenuto è il frutto di un eccesso di presunzione del nostro Presidente del Consiglio.

Se al posto di Conte ci fosse stato Trump è probabile che Al Serraj avrebbe risposto la propria suscettibilità ed avrebbe accettato di buon grado di incontrare il Presidente Usa anche se era stato preceduto dal nemico generale Haftar. Lo stesso sarebbe accaduto se invece di Trump il posto di Conte fosse stato ricoperto dalla  Merkel, da Macron per non parlare di Putin o di Erdogan.

“Giuseppi”, invece, non era altro che “Giuseppi”. Ed il premier tripolino non ha avuto alcuna esitazione a compiere nei suoi confronti uno sgarbo che non si sarebbe mai permesso di compiere nei confronti di un altro Premier di un altro paese.

Questo significa non solo che l’Italia del governo giallorosso non conta nulla nel contesto internazionale ma anche che la credibilità ed affidabilità personale di Conte sono pari allo zero. Sopravvalutato in Italia, il nostro Presidente del Consiglio è invece brutalmente sottovalutato sul terreno estero.

I suoi amici si riconsolano rilevando che “Giuseppi” è sempre meglio di “Giggino” che se lo vai trovare nel suo ufficio della Farnesina non lo trovi perché è evaporato.

Ma se questo è il livello dei governanti che l’Italia può permettersi c’è veramente da disperarsi per il futuro dei paese!

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Redazione8 Gennaio 2020
Una delle regole auree del giornalismo stabilisce che se un tuo scritto viene male interpretato e suscita equivoci, vuol dire che non era chiaro. Per questo, a proposito delle polemiche suscitate dalla mia prima “Rubrica biancoceleste”, cerco di fornire alcune precisazioni.

La prima è che il termine “Lazietta” non è stato inventato da me ma da quei critici e denigratori che negli anni passati, sia nei periodi più bui e drammatici che in quelli fulgidi dei due scudetti, si ostinavano a considerare la nostra una squadra di basso livello esterna ed estranea al gotha del calcio nazionale a causa della precarietà della sua condizione societaria.

Non era mia intenzione mettere a confronto la Lazio odierna con quelle del passato, ma solo ribadire il dato inequivocabile che solo la presenza di una proprietà presente, attiva, capace e solida riesce a dare continuità ad un progetto di crescita di una squadra proiettandola verso i massimi livelli del calcio nazionale ed internazionale. Quando manca questa condizione proprietaria anche le squadre provviste di grandi giocatori soffrono ed entrano in crisi.

La seconda precisazione è che non ho deciso di scrivere una “Rubrica biancoceleste” per ragioni professionali (il mio ruolo di portavoce del presidente Claudio Lotito e direttore della comunicazione), ma solo perché sono un tifoso laziale da parecchi decenni prima del mio incarico e mi sembra non solo corretto ma anche doveroso dare voce alla mia passione usando canali mediatici personali e non della società.

La terza precisazione, infine, riguarda il tipo di contestazioni che ho ricevuto. Proprio perché tifoso da sempre dei colori biancocelesti, non intendo prendere lezioni di lazialità da nessuno (tantomeno da alcuni di quei denigratori del passato che mi hanno contestato per aver citato il termine “Lazietta” da loro sempre usato per metterci sempre e comunque all’angolo rispetto alle squadre del Nord ed alla “cugina” della Capitale).

A tutti coloro che poi mi hanno aggredito verbalmente rispondo, sorridendo, citando quanto disse Totò in “Guardie e ladri” ad Aldo Fabrizi che gli ordinava di fermarsi minacciandolo in caso contrario di sparare a scopo intimidatorio: “Io non mi intimido!”.

Non l’ho fatto per una vita e per ragioni politiche. Figuriamoci se lo faccio ora di fronte a chi non capisce per inguaribili pregiudizi.