L'Opinione delle Libertà | Arturo Diaconale - Part 16


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Redazione5 Luglio 2019

Cresce la convinzione che la mancata procedura d’infrazione abbia tranquillizzato i mercati e scongiurata l’ipotesi di una crisi di governo destinato a portare al voto anticipato a settembre. Sul tavolo del governo ci sono ancora parecchie questioni irrisolte e gravate da una conflittualità palese o latente tra grillini e leghisti. Ma l’impressione generale è che le migliorate condizioni possano favorire il raggiungimento di qualche utile compromesso sul tema dell’autonomia, dell’Ilva, di Alitalia e del salario minimo garantito.

La crisi e le elezioni anticipate, dunque, si allontanano. Almeno fino alla prossima primavera. E questo impone a tutte le forze politiche, sia di governo che d’opposizione, di ridefinire le proprie strategie approfittando dei prossimi mesi di possibile stabilità.

Il compito apparentemente più facile sembra essere quello della Lega. L’insipienza dei propri avversari, testardamente decisi a perseguire la linea del “tutti contro uno”, le garantisce una sorta di rendita di posizione difficilmente attaccabile. La vicenda della Sea-Watch è indicativa al riguardo. Più sinistra, Chiesa e pezzi di magistratura continuano a seguire lo schema antico della criminalizzazione del nemico considerato più pericoloso, più l’aggressione continua spinge la maggioranza dell’opinione pubblica contraria ai tradizionali centri di potere a solidarizzare con il criminalizzato. È la storia dei vent’anni di leadership di Silvio Berlusconi, una storia che non sembra aver insegnato nulla agli antisalviniani viscerali.

Ma la rendita per insipienza va consolidata da risultati concreti nell’azione di governo. E su questo terreno Salvini ed il suo gruppo dirigente non possono permettersi distrazioni di sorta. Se nei prossimi sei mesi non portano a casa la riduzione della pressione fiscale, rischiano di perdere i vantaggi graziosamente garantiti dai nemici.

Più complicata la fase che segue per il Movimento Cinque Stelle. Deve dimostrare al proprio elettorato di non essere diventata la sussistenza che segue sempre e comunque Salvini. E con le tensioni interne in aumento non sembra essere un impegno facile da realizzare. Tanto più che il progetto di riorganizzazione del movimento è ancora tutto da inventare. Anche per la difficoltà di dare consistenza ad una area politica ed elettorale più gassosa che mai.

Pd e Forza Italia, infine, potrebbero approfittare della stabilità dei prossime mesi. Per riorganizzarsi, rilanciarsi, ricompattarsi. Ma lo sapranno fare? Al momento sembra solo che per entrambi ci sarà solo una nuova fase di coma profondo. In attesa di vedere staccare la spina!

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Redazione4 Luglio 2019

Si discute molto animosamente sulla decisione della Gip di Agrigento, Alessandra Vella, di mettere in libertà la capitana della Sea-Watch Carola Rackete respingendo tutte le accuse che erano state mosse nei suoi confronti e che le avevano provocato gli arresti domiciliari. La discussione è sul merito del provvedimento ma, soprattutto, sulle conseguenze della decisione della magistrata.

Entrambe le questioni, però, sono condizionate dai pregiudizi di parte. Le ragioni giuridiche su cui poggia la decisione della Gip agrigentina vengono fieramente sostenute da chi ha compiuto una scelta di campo netta a favore dell’”eroina” Carola. Al tempo stesso, chi considera la “capitana” della Sea-Watch una “criminale” non ha alcun problema a contrapporre alle argomentazioni della magistrata siciliana motivazioni giuridiche esattamente opposte.

Le stesse pregiudiziali di parte valgono per l’analisi delle conseguenze della liberazione della “santa” o “criminale” Carola. C’è chi non ha dubbi nel definire la sua liberazione una sconfitta netta del ministro dell’Interno Matteo Salvini ed una conferma della indipendenza e dell’autonomia della magistratura. E chi si frega le mani nella convinzione che a colpi di sconfitte del genere la Lega finirà inevitabilmente con il diventare un partito destinato a superare il quaranta per cento dei consensi degli italiani.

Manca nel dibattito una qualsiasi considerazione sul fatto che la decisione della Gip agrigentina fissa l’assioma secondo cui non esistono porti sicuri nel Mediterraneo al di fuori di quelli italiani e stabilisce la regola che qualunque legge possa essere emanata dal Parlamento nazionale per bloccare o controllare i flussi dei migranti potrà essere tranquillamente ignorata in nome delle leggi internazionali e delle ragioni umanitarie contenute nei principi della nostra Costituzione.

Insomma, la Gip di Agrigento ha stabilito a nome della magistratura italiana che per le condizioni particolari esistenti nel Mediterraneo e per le norme internazionali e per lo spirito della Carta costituzionale, l’accoglienza deve essere priva di qualsiasi limite e freno.

Papa Francesco, i vescovi progressisti e la sinistra in preda a sindrome umanitaria saranno felici. Le navi Ong ora hanno libero accesso ai porti italiani. Ma forse ancora più contento sarà Salvini. Che si prepara ad attendere gli inevitabili nuovi arrivi per diventare il mattatore assoluto della scena politica italiana!

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Redazione3 Luglio 2019

Carlo Calenda vuole riformale il liberismo applicando a questo processo di riforma e di rinnovamento il “metodo Bad Godesberg”, che venne usato dai socialisti tedeschi per rimuovere il loro antico marxismo-leninismo e convertirsi alla socialdemocrazia.

Ma si può imitare il socialismo per innovare il liberismo? E la proposta di Calenda è il segno della confusione di un personaggio che probabilmente conosce poco sia il socialismo che il liberismo ma si sente predestinato ad un ruolo comunque da leader su qualunque possibile versante politico nazionale ed internazionale?

Ironizzare sul misto fritto dottrinario di Calenda è, però, come sparare sulla croce rossa. E lo stesso vale per quanto riguarda il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, che, pur avendo alle proprie spalle una storia di tecnico occasionalmente imprestato alla politica, ha preso talmente gusto alla sua attuale attività da lanciare una sfida a tutti i dirigenti del Partito Democratico candidandosi a diventare il leader di un partito progressista caratterizzato da un maggiore radicalismo riformista ed ambientalista.

Ma guardare con distacco critico la sortita di Calenda che vuole creare un centro da affiancare al Pd e quella di Sala che vuole spostare a sinistra lo stesso Partito Democratico per precostituirsi un futuro da grande capo progressista, non può far ignorare che tanti fermenti non sono solo una conferma della confusione esistente a sinistra. Sono anche un segno, sia pure contraddittorio, di vitalità. Quella vitalità che è invece totalmente assente sul fronte di quella parte del centrodestra che fino a questo momento continua ad essere rappresentata da Forza Italia.

Intendiamoci, il fermento in casa forzista non manca. Anzi, sovrabbonda. Ma non è rivolto a promuovere una qualche revisione del pensiero liberale, riformatore o cattolico-liberale. O a stabilire che una nuova Forza Italia dovrebbe collocarsi più a destra, più al centro e, magari, più a sinistra. E rivolto esclusivamente a risolvere le questioni di posizionamento personale dei vari esponenti di punta del partito berlusconiano. Con Toti o contro Toti? Con la Carfagna o contro la Carfagna? Con la Gelmini o contro la Gelmini? Al posto delle idee, anche se confuse, le persone.

Qualcuno se la sente di avanzare un qualche pronostico diverso dall’implosione per la sorte di Forza Italia?

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Redazione2 Luglio 2019

La notizia della morte di almeno venti migranti nei campi di raccolta libici sembra fatta apposta per dimostrare come i porti della Libia non possano essere considerati “sicuri” e come la rotta verso l’Italia delle navi Ong e dei barconi di disperati sia priva di qualsiasi alternativa. Hanno dunque ragione quanti sostengono che sulla base di queste considerazioni e delle leggi internazionali e delle norme della nostra Costituzione sia totalmente sbagliata ed illegale la politica dei “porti chiusi” e delle restrizioni nei confronti delle operazioni umanitarie portata avanti dal governo giallo-verde e diventata l’elemento caratterizzante della strategia della Lega di Matteo Salvini?

Il Presidente della Camera Roberto Fico, in perfetta condivisione della linea tenuta dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dei continui ed insistenti richiami in favore dell’accoglienza senza limiti lanciati da Papa Francesco, non hanno dubbi in proposito. Neppure l’inerzia dell’Unione Europea rispetto al problema delle grandi migrazioni, ha sostenuto Fico, può diventare un alibi per giustificare la politica delle frontiere sigillate.

Ma in base a quale valutazione ispirata ad un minimo di realismo può essere accettabile una posizione del genere che di fatto condanna l’Italia ad essere sempre e comunque il libero punto di approdo delle centinaia di migliaia di disperati decisi a sfuggire alle guerre ed alle persecuzioni ma anche a perseguire una migliore condizione economica?

Il realismo impone di dare una risposta non ideologica. Né buonista, né cattivista. Ma solo condizionata dai fatti concreti. Prima fra tutte quella secondo cui le leggi internazionali e la Carta Costituzionale vanno necessariamente rapportate alle mutate condizioni storiche. Leggi e Costituzione non potevano prevedere le vicende in corso. Se in Libia si preparano a partire per l’Italia i presunti ottocentomila migranti, come ci si deve comportare? All’insegna del “fiat lex e pereat mundus”? Oppure difendendo le frontiere rispetto ad una minaccia d’invasione che potrebbe essere interpretata anche come un atto di guerra? Il realismo esclude dubbi in proposito. Ma impone anche di sollevare l’interrogativo che proprio la notizia dei morti per fame e sevizie nei centri di detenzione libici ha sollevato in questi ultimi giorni. Perché l’Onu e le sue organizzazioni umanitarie non intervengono nell’ex colonia per garantire il rispetto dei diritti umani nei campi di concentramento per migranti e per rendere sicuri quei porti che la guerra civile rende inaccessibili? In Africa, in Asia, in Medio Oriente ed in gran parte delle aree mondiali colpite da tragedie come quella libica, non si contano le missioni umanitarie (condotte anche con mezzi militari) delle Nazioni Unite. Perché in Libia no?

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Redazione1 Luglio 2019

La Chiesa evangelica che finanzia la Sea-Watch lo dovrebbe sapere. Così come non dovrebbero ignorarlo quei vetero-catto-comunisti italiani che hanno straformato la “capitana” Carola Rackete nell’eroina da contrapporre al “truce capitano” (spopola la definizione di Matteo Salvini fatta da Giuliano Ferrara in un empito di ritorno al passato togliattiano) in nome dei diritti umani calpestati da un sovranismo che fa tanto rima con fascismo e serve a ripercorrere schemi politici mai dimenticati per mancanza di capacità d’innovazione.

Costoro dovrebbero ben conoscere il santo proverbio che la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. E rendersi conto che la levata di scudi contro Salvini, l’appello alla disobbedienza civile in nome della suprema difesa dei valori umani, la demonizzazione furibonda del vicepresidente leghista ed il frenetico riutilizzo di tutto l’armamentario dialettico della propaganda progressista del secolo passato aggiornato con il livore ottuso del politicamente corretto del presente, ha come unico risultato l’aumento dei consensi della Lega da parte di una larga maggioranza dell’opinione pubblica del Paese.

Se non ci fosse una “capitana” in preda a protagonismo umanitario di stampo paranoico, Salvini se la dovrebbe inventare. Se mancassero i deliri di Roberto Saviano, gli insulti di Adriano Sofri, le smaccate strumentalizzazioni degli esponenti del Partito Democratico alla disperata ricerca di una qualche ragione per giustificare la loro sopravvivenza politica, il vicepresidente del Consiglio sarebbe costretto a pagare qualche avversario di comodo per continuare ad essere il mattatore della scena politica italiana e anche europea.

Invece gli utili sciocchi esistono, compresi quei responsabili politici tedeschi, francesi ed addirittura lussemburghesi che avendo sbagliato da decenni le loro strategie sull’immigrazione o avendo come sola preoccupazione quella di tutelare il proprio paradiso fiscale, pretendono di dare lezioni al Paese che non può diventare un Paese equivalente alla Turchia di Recep Tayyip Erdoğan senza neppure beneficiare degli aiuti della cancelliera Angela Merkel.

Tutti questi sciocchi lavorano sodo per Salvini. Trasformandolo nell’asso pigliatutto di una maggioranza di opinione pubblica che non ama le sue pose truculente, ma che di fronte alla forsennatezza di un fronte vetero-catto-comunista politicamente corretto è pronto a turarsi il naso pur di non cadere dalla padella alla brace.

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Redazione25 Giugno 2019

Il rischio di implosione di Forza Italia non è affatto scongiurato. La decisione di Silvio Berlusconi di affidare il proprio partito a GIovanni Toti e a Mara Carfagna, cioè ai due esponenti forzisti che avevano le maggiori potenzialità di uscire e mettersi in proprio, rinvia nel tempo ma non cancella del tutto la possibilità di una rottura devastante. Anzi, la prospettiva che da ora al congresso da tenere a data da destinarsi i due si preoccupino esclusivamente di organizzare la rispettive truppe in vista di uno scontro finale in cui non fanno prigionieri, non è affatto peregrina. Anzi, è facile immaginare che Giovanni Toti trovi quasi naturale dare vita a Forza Italia del Nord in contrapposizione alla Forza Italia del Sud di Mara Carfagna in vista di assise nazionali destinate a diventare il momento culminante di una resa dei conti che potrebbe anche portare alla separazione tra i forzisti settentrionali e quelli meridionali.

Il rischio, quindi, esiste. Ma non poteva non essere corso. Perché senza la soluzione trovata da Berlusconi la spaccatura ci sarebbe stata fin da ora. Con conseguenze devastanti e senza neppure la speranza che la diarchia realizzata al vertice di Forza Italia non debba necessariamente sfociare nella trasformazione di Forza Italia da forza unitaria nazionale a due tronconi separati e distanti non solo per ragioni territoriali ma anche politiche.

È possibile coltivare la speranza che la diarchia non porti alla spaccatura ma alla creazione di una forza politica in cui le legittime ambizioni dei singoli vengono regolate dal confronto democratico e dal consenso degli aderenti?

L’unico modo di tenere unita Forza Italia passa dalla intenzione e dalla capacità dei diarchi di rinunciare alla logica dei ridotti dei fedelissimi e di puntare sulla massima apertura a chiunque, al Nord, al Sud ed in un Centro al momento sotto vuoto spinto, abbia intenzione di dare un contributo al rilancio dell’area liberale, popolare, riformista.

Non si tratta di una impresa semplice. Al contrario, appare molto difficile e complessa. Ma c’è un modo diverso per evitare l’implosione di Forza Italia?

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Redazione24 Giugno 2019

Sul Csm “ora si volta pagina”. Le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sono state salutate non solo come l’annuncio di una rivoluzione all’interno dell’organo di autogestione della magistratura ma anche come un altissimo argine contro chiunque volesse approfittare dell’attuale stato di crisi per colpire l’autonomia e l’indipendenza delle toghe sancite dalla Costituzione repubblicana.

Ma come verrà riempita la pagina nuova indicata da Mattarella? E chi e come vorrebbe attentare alle prerogative costituzionali della magistratura per subordinare l’ordine giudiziario a quello politico?

Al momento nessuno sa dare risposte a questi due interrogativi. Perché se voltare pagina significa smantellare il sistema delle correnti, non esiste all’interno della categoria degli amministratori della giustizia una sola proposta concreta in questo senso. Tutti manifestano la massima indignazione per le degenerazioni del sistema correntizio. Ma, a parte l’idea del sorteggio per le cariche apicali che non viene dai magistrati e che sarebbe la negazione assoluta di quel criterio meritocratico chiesto dalla logica e dal Capo dello Stato, non esiste alcuna proposta su come la degenerazione dovrebbe essere cancellata. Anche perché a tuonare contro le nequizie delle correnti sono gli stessi capi-corrente. E questo lascia sospettare che l’unica misura da attuare potrebbe essere l’abolizione delle cene notturne negli alberghi in favore dei pranzi diurni nelle trattorie provviste di tavoli all’aperto.

Identica oscurità grava su chi e come vorrebbe voltare pagina costringendo i magistrati a mettersi al servizio della politica, pratica peraltro già in funzione da tempo immemorabile. Anche a volerli cercare con il lanternino non si scorgono nel panorama politico nemici agguerriti della indipendenza e dell’autonomia dei giudici. E l’assenza di tali nemici è talmente evidente da far sospettare che la difesa preventiva di queste prerogative costituzionali possa diventare un comodo alibi per non smuovere una sola pietruzza nel sistema giudiziario che dovrebbe voltare pagina. Il film è vecchio come il cucco. E ripete che separare le carriere significa ledere l’autonomia e l’indipendenza, che mitigare l’obbligatorietà dell’azione penale costituisce un vulnus irreparabile alla Carta costituzionale e regolare la discrezionalità interpretativa dei codici da parte delle toghe rappresenta un colpo mortale all’ordinamento repubblicano.

Ed allora come si volta pagina? Con i pranzi al posto delle cene! Forse, ma rigorosamente fuori degli alberghi!

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Redazione21 Giugno 2019

Il Procuratore di Milano, Francesco Greco, ha deciso di seguire l’esempio dell’antico vescovo della città lombarda, Ambrogio. Come quest’ultimo, successivamente divenuto santo, che aveva bollato Roma come la “sentina” di tutti i mali e le nefandezze, ha denunciato come madre di tutte le nequizie della magistratura i riti e le abitudini di quelle toghe che sono entrate nel Csm e hanno immediatamente acquisito i vizi di chi vive negli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana.

Come Ambrogio ai suoi tempi, però, anche Greco scambia il dito per la luna non rendendosi conto che la causa di tutto ciò che sconcerta i magistrati lontano dalla Capitale perversa non sono le condizioni ambientali della città del potere politico e della conseguente “Dolce Vita”, ma sono la forma e la struttura del potere stesso.

Così come Ambrogio avrebbe dovuto prendersela con la struttura verticistica, oligarchica, autoritaria della Chiesa invece che con le conseguenze fisiologiche di strutture del genere, Greco dovrebbe lanciare i suoi strali non nei confronti di chi scopre in età avanzata quanto possa essere piacevole vivere negli alberghi nel lusso e nei privilegi lontano dalle famiglie e dalle cittadine d’origine, ma contro il sistema di potere correntizio creatosi negli ultimi decenni nella magistratura.

Ambrogio, che era diventato vescovo di Milano sulla base delle regole della struttura verticistica della Chiesa, se la prese con il perverso ponentino romano per non diventare un Lutero ante-litteram e finire nel girone dannato degli eretici. Greco segue la stessa strada per evitare un percorso che lo condurrebbe inevitabilmente in rotta di collisione con un sistema di cui è stato ed è parte integrante. Il Procuratore di Milano, infatti, non è uno sprovveduto che scopre oggi i guasti ed i difetti di un Csm divenuto, grazie al correntismo esasperato, la copia conforme dei palazzi della politica. È un magistrato esperto, capace e navigato che, pur essendo rimasto fuori dal gioco dei gruppi organizzati presenti nella magistratura, non può aver ignorato in tutti i suoi anni di esperienza di Procuratore di Milano i meccanismi che erano stati costruiti e che venivano utilizzati dalle correnti.

Prendersela con il dito evitando di attaccare la luna è dunque comodo. Ambrogio è diventato santo. Greco, per il momento, solo beato!

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Redazione20 Giugno 2019

Così giovane, così ridicolmente demagogo! Il riferimento è a Luigi Di Maio, che pare non aver compreso la lezione delle elezioni europee e continua imperterrito ad usare l’unica forma espressiva che sembra conoscere, quella della demagogia che più appare forzata e più risulta fasulla. Dopo essersi esercitato in questa sua specializzazione lanciando la proposta di un salario minimo orario garantito per legge di nove euro, proposta che se non viene finanziata dallo Stato con almeno tre o quattro miliardi rischia di provocare la disoccupazione degli attuali sottoccupati, il capo politico del Movimento Cinque Stelle ha approfittato della vicenda riguardante l’attuale presidente della Rai, Marcello Foa, per denunciare la presenza della politica nell’azienda radiotelevisiva pubblica e minacciare un drastico taglio del canone se l’invadenza dei partiti non verrà tempestivamente eliminata.

Se Di Maio fosse ancora il leader di un partito non solo d’opposizione ma anche di lotta al sistema, la sua denuncia e la sua minaccia sarebbero risultate credibili. Ma Di Maio è il capo politico di un partito che non solo si trova al Governo ed usufruisce di tutte le prerogative ed i vantaggi che il sistema assicura alla forza di maggioranza relativa, ma è anche lo stesso partito che da un anno a questa parte esercita con grande gusto e soddisfazione il proprio potere all’interno del servizio pubblico radiotelevisivo.

Non risulta che il Movimento Cinque Stelle si sia minimamente posto il problema dell’abrogazione di quella riforma della Rai realizzata dal Governo di Matteo Renzi che attribuisce al Governo stesso il controllo dell’azienda attraverso la nomina di un amministratore delegato dotato di superpoteri. Risulta, al contrario, che nessun esponente grillino abbia mai messo in discussione la riforma Renzi che assicura al maggiore partito di governo il controllo assoluto del servizio pubblico. E, soprattutto, risulta che dopo aver applicato a proprio vantaggio la legge renziana nominando un amministratore delegato di propria fiducia, il Movimento Cinque Stelle abbia allegramente lottizzato la Rai imitando in tutto e per tutto le pratiche seguite da tutti i partiti della Prima, della Seconda e della Terza Repubblica.

Se Di Maio vuole tagliare il canone, lo faccia. Ma eviti di sbandierare l’ipocrita e ridicolo vessillo della cacciata della politica e dei partiti dalla Rai. Se vuole essere credibile abroghi la legge che attribuisce al Governo il controllo della Rai. Senza questa abrogazione rimane un demagogo talmente smaccato da apparire ridicolo!

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Redazione19 Giugno 2019

Nessuno ha ancora capito bene quanto possa costare la realizzazione del salario minimo garantito per legge trasformata dal Movimento Cinque Stelle nel principale cavallo di battaglia di questa fase politica. C’è chi parla di tre miliardi e duecento milioni di euro, chi di quattro miliardi e c’è anche chi arriva a calcolare che il provvedimento potrebbe riguardare tre milioni di lavoratori e costare addirittura una decina di miliardi di euro.

Come coprire costi di questo tipo che si aggiungono ai ventitré miliardi previsti per evitare l’aumento dell’Iva ed ai miliardi che dovrebbero essere impiegati per il drastico taglio delle tasse chiesto dalla Lega? Il mistero è fitto. E anche se gli esponenti del Movimento Cinque Stelle si dicono certi che le risorse necessarie verranno fuori dalla lotta all’evasione fiscale, l’interrogativo continua a rimanere senza una risposta certa.

A questa incertezza corrisponde, però, l’assoluta certezza che se non saranno le finanze pubbliche ad assicurare il denaro necessario a finanziare i nove euro all’ora garantiti da una legge dello Stato a quelle categorie che attualmente guadagnano di meno, l’aumento deciso per via legislativa si tradurrà automaticamente in una drastica riduzione dell’occupazione. Cioè in un danno per tutti quei dipendenti che oggi hanno retribuzioni estremamente basse ma che domani potrebbero ritrovarsi senza alcuna retribuzione a causa dell’impossibilità delle aziende di trovare i tre, i quattro o i dieci miliardi indispensabili per rendere concreta la manovra assistenziale chiesta dal Movimento Cinque Stelle.

L’assistenza, in altri termini, non può essere chiesta al mercato. Lo Stato può e deve fissare le regole per la contrattazione tra aziende e sindacati sul salario minimo, ma se vuole scavalcare la dialettica tra le associazioni dei datori di lavoro e quelle dei dipendenti e fissare norme dirigiste da sistema corporativo, deve obbligatoriamente finanziare con le proprie risorse l’assistenza. Per evitare le drammatiche conseguenze sociali in termini di disoccupazione e di lavoro in nero che comporterebbe lo scaricare i costi del provvedimento sulle sole imprese.

Mettere in guardia contro l’ennesima misura assistenzialista chiesta dai grillini non significa schierarsi dalla parte delle aziende contro i lavoratori. Significa l’esatto contrario. Cioè tutelare le fasce più deboli ribadendo che l’assistenzialismo porta inevitabilmente alla decrescita, purtroppo sempre infelice e drammatica.