L'Opinione delle Libertà | Arturo Diaconale - Part 18


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Redazione4 Giugno 2019

Quella di Giuseppe Conte è stata una mossa irrituale ma abile per scaricare il cerino della crisi nelle mani di Matteo Salvini e Luigi Di Maio e ritagliarsi un ruolo di tecnico super partes che, nel Paese in cui ci sono stati i fenomeni di Dini, Ciampi e Monti, potrebbe risultare molto utile in futuro.

Per ottenere questi due risultati Conte aveva assolutamente bisogno della irritualità. Avrebbe potuto pronunciare il suo ultimatum ai due vicepresidenti litiganti in una qualsiasi riunione riservata a Palazzo Chigi. Come avrebbe fatto la stragrande maggioranza dei suoi predecessori. Ma in questo caso non si sarebbe liberato agli occhi dell’opinione pubblica di qualsiasi responsabilità di una eventuale crisi. E non avrebbe potuto ridefinirsi il ruolo di tecnico “terzo” lontano dalla Lega ma completamente distante anche dal Movimento Cinque Stelle che lo aveva designato per il ruolo di Presidente del Consiglio.

Conte, dunque, che si è ben guardato di ufficializzare il suo ultimatum in Parlamento per non essere accusato di essere il vero artefice della crisi, ha pensato a se stesso. Ed è proprio la motivazione del “si salvi chi può” che indica con chiarezza la gravità di un quadro politico reso traballante da una campagna elettorale che ha dimostrato come nessun contratto di potere può reggere sotto le spinte identitarie contrastanti di chi lo ha sottoscritto.

Tale gravità non significa affatto che il Governo giallo-verde sia destinato a cadere in tempi rapidissimi. Indica più semplicemente che i rapporti di forza nella coalizione si sono ribaltati e che d’ora in avanti, con Conte non più mediatore ma “terzo” garantito dal Quirinale, Salvini detterà l’agenda della coalizione e se il Movimento Cinque Stelle si metterà di traverso si assumerà la responsabilità di mandare a casa l’esecutivo.

Il cerino, dunque, passa direttamente nelle mani di Luigi Di Maio. Che rischia di bruciarsi stretto com’è tra le pressioni della Lega ed i sentimenti identitari antileghisti del Movimento Cinque Stelle che lui stesso ha risvegliato ed alimentato nella speranza di evitare il bagno elettorale durante l’ultimo mese della campagna delle Europee.

Quanto potrà andare avanti questa solfa? Sicuramente, come ha detto Salvini, fino ai primi di luglio. Poi o i grillini si appiattiscono e si spaccano, o si torna alle urne. Sempre che a Sergio Mattarella non venga in testa di sperimentare Conte nel ruolo passato di Dini e di Monti!

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Redazione3 Giugno 2019

In politica il parricidio è una tradizione costante. Per rimanere ai giorni nostri l’esempio di Forza Italia è illuminante. A tentare di fare fuori Silvio Berlusconi ci hanno provato in tanti. Da Gianfranco Fini ad Angelino Alfano per arrivare a Denis Verdini. Ma il Cavaliere è riuscito a resistere a tutti i tentativi ed ha continuato a dirigere il partito che ha fondato nel ’93 e di cui è stato il motore portante ed indispensabile fino alle ultime elezioni europee.

Per chi si ponga il problema di trovare un modo per scongiurare l’implosione e la dissoluzione di Forza Italia, dunque, la strada del parricidio politico è preclusa. Chiunque voglia provarci corre il rischio di diventare, come ha rilevato lo stesso Berlusconi, irrilevante.

Per impedire la scomparsa del partito del Cavaliere bisogna seguire una diversa strada. Che deve necessariamente poggiare sul presupposto della intangibilità di Berlusconi. Giusto, ma di quale Berlusconi? Di quello dei venticinque anni passati che decideva in piena autonomia, confortato dagli amici e consiglieri storici Gianni Letta e Fedele Confalonieri, ma ascoltava dialogava recependo come una spugna tutte le idee e proposte che a suo parere potevano essere interessanti? Oppure del Berlusconi degli ultimissimi anni, chiuso da un cerchio di intimi che in partenza avrebbe dovuto essere di tipo sanitario, per preservarlo da un carico eccessivo di lavoro, ma che si è rapidamente trasformato in un cerchio carcerario artefice della trasformazione di Arcore in un bunker inaccessibile dove attendere l’arrivo della inevitabile fine?

La risposta all’interrogativo è, dunque, scontata. Per salvare Forza Italia ci vuole il primo Berlusconi. Ma per avere il primo Berlusconi è necessario lanciare una campagna per la liberazione dello stesso Cavaliere dal cerchio carcerario che lo tiene prigioniero e che ha approfittato di questa condizione per esercitare il massimo potere sul partito.

Procedere alla liberazione di Berlusconi non è affatto facile. Perché il primo a doversi convincere della necessità della sua liberazione è proprio il Cavaliere recluso ad Arcore ed impermeabilizzato rispetto all’esterno. Ma convincere Berlusconi della necessità della sua liberazione è indispensabile. O salta il cerchio carcerario e restituisce il leader che sapeva guardare lontano o per Forza Italia la sorte è segnata!

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Redazione31 Maggio 2019

Sono anni che nel nostro Paese i partiti non celebrano più congressi. Neppure il Partito Democratico, dove si riunisce un’Assemblea Nazionale che ha però il solo compito di ribadire la scelta del segretario compiuta dalle precedenti primarie.

Per cui è legittimo chiedersi se la decisione di Silvio Berlusconi di sedare con un congresso autunnale le polemiche scoppiate nel partito dopo la sconfitta elettorale alle Europee (a dimezzare i propri voti non è stato solo il Movimento Cinque Stelle ma anche Forza Italia), sia una possibile soluzione o, viceversa, diventi un nuovo problema.

Un congresso, infatti, presuppone l’esistenza di un partito. Cioè di un reticolo di iscritti distribuiti sul territorio che danno vita a congressi locali allo scopo di scegliere i delegati da inviare al congresso nazionale. Questo reticolo non esiste. Per la semplice ragione che al metodo della selezione dal basso del gruppo dirigente si è sempre preferito il metodo della cooptazione dall’alto dei parlamentari o dei più stretti collaboratori del leader fondatore.

È singolare che a lamentarsi della cooptazione sia chi ne ha ampiamente beneficiato. Ma è ancora più singolare che non si riesca a capire come il metodo della cooptazione sia la caratteristica dominante del partito leaderistico mentre il metodo democratico sia quello dei partiti di massa della Prima Repubblica. Fino a quando Forza Italia rimane il partito del leader Silvio Berlusconi è pura finzione immaginare un ritorno ad un passato che la creatura del Cavaliere non ha mai vissuto o praticato.

Il problema di fondo di Forza Italia è tutto qui. Finché c’è il leader, il partito non può passare al metodo democratico e procedere ad un rinnovamento proveniente dal basso. Questo significa che basterebbe la scomparsa del leader per risolvere la questione? Niente affatto. Perché un partito leaderistico svanisce quando il leader non c’è più. Come dimostra il risultato delle Europee, che è stato sicuramente deludente ma che sarebbe risultato drammatico se non ci fosse stato Silvio Berlusconi.

E allora? Si faccia pure il congresso autunnale finto. Ma nel frattempo qualcuno incominci ad elaborare, autonomamente dal leader, una linea politica da proporre al mondo moderato che non sia la conversione al sovranismo o la corsa a salire sui carri (ancora tutti da costruire) di Carlo Calenda o Matteo Renzi.

I leader passano, ma per continuare a tenere insieme i loro elettori ci vogliono almeno delle idee e dei progetti!

 

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Redazione30 Maggio 2019

Una volta la Procura di Roma veniva definita “il porto delle nebbie”. Perché qualunque inchiesta riguardante il potere politico della Prima Repubblica veniva ormeggiata nei settori coperti da nebbia fitta fino a quando si sgonfiavano e si confondevano con la coltre oscura ed ovattata. Erano i tempi in cui i vertici della magistratura dipendevano in maniera solidissima dai principali partiti di governo (Dc e Psi) ed accettavano ben volentieri questa condizione subordinata che garantiva privilegi e stabilità.

Quel “porto delle nebbie” non esiste più. La subordinazione è finita, la magistratura si è liberata dal peso opprimente e condizionante della politica. Ma, alla luce di quanto sta avvenendo in questi giorni, c’è da chiedersi se non fosse meglio quando si stava peggio visto che l’autogestione corporativa delle toghe ha di fatto trasformato la Procura nebbiosa nel pozzo dei veleni.

Lo scenario in cui questi veleni vengono sparsi a piene mani è quello della successione al Procuratore Capo Giuseppe Pignatone, andato in pensione. Nel momento in cui l’ex procuratore ha lasciato la poltrona e si è aperta ufficialmente la corsa alla sua sostituzione, è scoppiata una guerra tra diverse componenti della magistratura che ha scelto come terreno di scontro non le discussioni ma le inchieste giudiziarie. Come se l’uso politico della giustizia, divenuto pratica ormai continua tra i partiti e le fazioni dei partiti, si sia trasformato nello strumento preferito per la soluzione dei conflitti anche da parte dei magistrati.

Il fenomeno è scandaloso. E fin troppo inquietante. Perché non mette solo in mostra come la corsa per il ruolo di capo della Procura di Roma sia diventata una sorta di “palio” in cui l’unica regola è quella dell’assenza di qualsiasi regola. Ma fa apparire la magistratura come una categoria imitatrice delle peggiori pratiche in uso di quella politica a cui troppo spesso tende a supplire ed a scavalcare. Ma, soprattutto, ingenera una ondata di sfiducia nei confronti della giustizia da parte dei cittadini e pone l’interrogativo di fondo sulla validità del principio dell’autogoverno delle toghe.

Chi sparge veleni nel vecchio porto delle nebbie non si pone questi problemi. Ma non si rende neppure conto che sta segando il ramo su cui è seduto nella prospettiva di un tonfo da cui si può uscire solo con un nuovo assetto del sistema giustizia!

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Redazione29 Maggio 2019

Se un capo politico deve registrare il dimezzamento del proprio elettorato nel giro di un solo anno, non può permettersi di fare finta di nulla annunciando che d’ora in avanti il proprio partito verrà rinnovato.

Alla vigilia del voto del 26 maggio si prevedeva che se il Movimento 5 Stelle fosse riuscito a conservare una quota elettorale superiore al venti per cento la leadership di Luigi Di Maio non avrebbe subito scossoni. Ma la previsione è stata travolta da un risultato particolarmente deludente. Ed ora il capo politico grillino ne paga le conseguenze, come è logico che sia. Può essere che sia costretto alle dimissioni o che debba lasciare ad un direttorio la guida del partito conservando il ruolo di vicepresidente del Consiglio. Qualunque sia la formula che verrà usata, Di Maio non sarà più l’uomo solo al comando del popolo grillino ma dovrà rientrare nei ranghi come accade normalmente ad ogni leader sconfitto.

Il ridimensionamento di Luigi Di Maio è destinato a riflettersi negativamente sulla stabilità del governo. L’azzoppamento di Luigino mette in crisi la diarchia con Matteo Salvini che fino ad ora è stata, molto più del contratto di governo, il collante più solido dell’Esecutivo giallo-verde. La solidarietà generazionale e, forse, un pizzico di amicizia personale, hanno favorito i compromessi e tenuto in piedi la baracca. Senza questi fattori e con un Salvini costretto a vedersela con un intero direttorio, per Giuseppe Conte si prospettano tempi decisamente bui.

Per il M5S, però, il proprio problema di fondo non si chiama Di Maio ma si chiama linea politica. Che fare, adesso? Conservare una alleanza di governo, malgrado il ribaltamento dei rapporti di forza con la Lega, correndo il rischio di perdere nuovamente identità e voti nell’arco del prossimo anno? Oppure tornare all’opposizione rivendicando il diritto di staccare la spina al governo per conservare la propria purezza originaria e scongiurare il rischio di nuovi smottamenti elettorali?

La questione è aperta e toccherà a dirigenti grillini di risolverla nel minor tempo possibile. Ma per affrontarla correttamente dovranno essere consapevoli che questioni di genere sono quelle che compaiono tragicamente alla fine di un ciclo. L’esempio della parabola qualunquista dell’immediato dopoguerra dovrebbe fare scuola!

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Redazione28 Maggio 2019

Pare del tutto oziosa la domanda su quale linea debba assumere Forza Italia nel prossimo futuro. Le nostalgie “nazareniche” di chi sognava di creare il “Partito della Nazione” insieme con la componente renziana del Partito Democratico sono svanite come neve al sole dopo la conferma, avuta dal voto per la Regione Piemonte, che la strada segnata è quella del centrodestra. Diventa ozioso, allora, discutere se accettare o meno la leadership di Matteo Salvini. Il leader della Lega ha conquistato sul campo questo titolo. Ed anche se al momento non lo usa perché impegnato in un Governo giallo-verde, è pronto a rivendicarlo ed adoperarlo nel momento in cui il Movimento 5 Stelle dovesse staccare la spina e si dovesse andare ad elezioni anticipate. Il centrodestra a guida salviniana, come ha riconosciuto lo stesso Silvio Berlusconi, è l’unica coalizione in grado di conquistare la maggioranza del Paese e dare vita ad un governo capace di sciogliere i nodi della crisi.

Ma come stare in questa coalizione? Questo è l’unico interrogativo serio. E la risposta non può essere né la polemica continua anti-Salvini che ha caratterizzato il comportamento di alcuni esponenti forzisti nella campagna elettorale e neppure la subordinazione passiva ad una supremazia che sembra preparare una confluenza nella Lega non per ragioni politiche ma per salvezza personale.

La risposta è solo ed esclusivamente politica. Cioè la definizione e la rivendicazione di una linea che assegna a Forza Italia la sua funzione storica di soggetto politico rappresentativo delle aree culturali liberale, popolare, riformatrice che hanno radici nel passato ma sono in grado di produrre frutti positivi nel futuro. Forza Italia, in sostanza, deve coprire nel centrodestra quello spazio politico rappresentato dall’area moderata che la Lega e Fratelli d’Italia non sono in grado di compiere. Paradossalmente l’idea di Giorgia Meloni di un centrodestra monco ed esclusivamente sovranista favorisce questo progetto. Sempre che, naturalmente, Forza Italia sia un partito in grado di realizzarlo. Vale a dire ciò che al momento manca completamente ad una organizzazione politica che ha sfruttato al massimo l’ennesimo sacrificio personale di Berlusconi ma che rischia di rimanere il circolo ristretto di pochi e litigiosi dirigenti preoccupati solo del proprio futuro.

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Redazione27 Maggio 2019

L’argomento della Nuova Tangentopoli lanciato da Luigi Di Maio per risvegliare l’istinto giustizialista del proprio elettorato non ha funzionato. Così come è miseramente fallita la campagna lanciata dai grandi media, subito fatta propria dal Movimento 5 Stelle, del nuovo fronte antifascista destinato a fermare Matteo Salvini, reincarnazione in quanto sovranista, del fascismo mussoliniano. Infine non hanno avuto alcun effetto (tranne quello di riportare sul Partito Democratico il voto del cattolici progressisti), gli anatemi dei vescovi bergogliani incapaci di comprendere come la croce sia da secoli il simbolo identitario non solo della religione di Cristo ma anche dell’Occidente, dell’Europa e dell’Italia.

I risultati elettorali dimostrano che tutti questi tentativi di frenare la corsa salviniana e di mantenere il M5S sopra la soglia del 20 per cento sono miseramente falliti. La Lega ha conquistato il risultato che i sondaggi le attribuivano nei mesi scorsi, prima che l’ultima fase della campagna elettorale venisse caratterizzata dal particolare fuoco concentrico su Matteo Salvini del circo mediatico-giudiziario, dei media ottusamente fermi allo schema fascismo-antifascismo del secondo dopoguerra e di una Chiesa influenzata dal peronismo di sinistra dell’attuale Papa.

Questo triplice fallimento dimostra che fenomeni nuovi non possono essere efficacemente contrastati ricorrendo alle formule del passato od a quelle che si ostinano a non comprendere il presente europeo. Ed impone a chi vi si è aggrappato di procedere ad un profondo rinnovamento politico e culturale visto che il giustizialismo non funziona, l’antifascismo strumentale è ininfluente e pretendere di cancellare l’identità più profonda di un popolo è impossibile. Prevedere che queste lezioni vengano messe a frutto è, però, azzardato. I grillini vivono il momento più nero della loro crisi. E d’ora in avanti sono destinati o a fungere da stampella all’azione di governo impressa dalla Lega od a provocare una crisi destinata a sfociare nelle elezioni anticipate e nella loro marginalizzazione definitiva. Al tempo stesso i grandi media sono gestiti da una generazione di giornalisti ed intellettuali rimasti fermi alle fole della propria giovinezza che perinde ac cadaver continuerà ad usare gli schemi degli anni del secolo scorso. La Chiesa di Bergoglio, infine, pensa che l’unico modo per uscire dalla propria crisi sia quello di politicizzare in chiave neo-peronista la propria presenza nella società occidentale.

Il fallimento ed il ritardo dei propri oppositori, però, non deve illudere Salvini. Il voto europeo è volatile e l’unico modo per renderlo stabile per poi trasferirlo sul voto nazionale è di realizzare le promesse che dovrebbero rilanciare l’economia a rassicurare il Paese. Le condizioni per “il fare” sono particolarmente favorevoli. Lasciarsele sfuggire sarebbe più di un errore: una tragedia!

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Redazione24 Maggio 2019

Secondo l’ex Procuratore di Palermo, Roberto Scarpinato, la verità ufficiale sulle stragi mafiose, da quella di Capaci a quella di via D’Amelio, non regge. Il ché è sicuramente vero, così come la stragrande maggioranza delle versioni ufficiali certificate da sentenze giudiziarie riguardanti le stragi degli anni Settanta e Ottanta, fa acqua da tutte le parti. Ma alla verità ufficiale non si riesce a contrapporre alcuna verità alternativa. Sono decenni che procuratori, giudici, politici ed intellettuali ripetono la famosa affermazione di Pierpaolo Pasolini, “io so, ma non ho le prove”. E sono sempre decenni che questa verità alternativa di chi dice di sapere non si manifesta e non si concretizza.

Al posto di dati di fatti, di prove, di risultanze inoppugnabili, si continua ad alimentare un polverone di sospetti, di accuse prive di qualsiasi supporto, di fantasie azzardate e più o meno morbose, che non solo non contribuisce a favorire l’accertamento della verità ma che crea una coltre di fumo intossicante destinato a gettare indiscriminatamente un discredito devastante sulle istituzioni democratiche e ad impedire una effettiva ricerca della verità.

Dalle stragi avvenute nella Prima Repubblica sono passati alcuni decenni. Gran parte dei personaggi dell’epoca sono scomparsi ed in via di estinzione. Ma, soprattutto, le condizioni politiche di quell’epoca sono completamente mutate. Non c’è alcun doppio Stato da denunciare o da difendere. C’è solo da compiere una ricerca seria, più storica che giuridica, per arrivare ad una verità che una volta svelata non danneggerebbe nessuno. Tranne, forse, quelli che sull’“io so, ma non ho le prove” hanno costruito le loro carriere e le loro fortune politiche.

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Redazione24 Maggio 2019

La campagna elettorale giunta finalmente al termine passerà alla storia per due ordine di motivi. Perché si è sviluppata all’insegna dell’uno contri tutti (Matteo Salvini contro il resto dell’Italia politica). E perché i media, dalla Rai a La7 fino a ai quotidiani Repubblica e Corriere della Sera, hanno seguito questo schema schierandosi non solo dalla parte del Partito Democratico ma addirittura del Movimento Cinque Stelle pur di contrastare il populismo salviniano.

I risultati del voto, quindi, saranno estremamente interessanti. Non solo per capire se lo schema, che è scattato quando nei mesi scorsi i sondaggi hanno incominciato a prevedere un forte balzo in avanti della Lega ed un altrettanto significativo regresso del M5S, abbia funzionato. Ma, soprattutto, per verificare se le boccate d’ossigeno date ai grillini dal mondo dell’informazione sono servite allo scopo.

Se i sondaggi dei mesi scorsi saranno smentiti dal voto, cioè se la Lega non avrà il grande successo previsto e il M5S eviterà un forte salasso, si dovrà necessariamente concludere che lo schema del tutti contro uno ha funzionato. E Matteo Salvini ne dovrà prendere atto tornando a ragionare sulla necessità di rilanciare l’alleanza con quelle forze del centrodestra in grado di formare con la Lega uno schieramento di maggioranza alternativo all’attuale Governo giallo-verde. Ma se per caso lo schema non dovesse produrre i risultati sperati dai nemici del leader leghista, si aprirà una nuova stagione politica in cui Salvini, divenuto espressione di un partito di maggioranza relativa, potrà fissare l’agenda della politica nazionale decidendo se andare immediatamente all’incasso attraverso elezioni anticipate o pretendere di condizionare maggiormente l’azione del Governo attuale.

Accanto a questo interesse di natura politica c’è anche quello sul ruolo dei media. Il voto stabilirà il peso della Rai grillizzata, de La7 ossessivamente schierata in favore di una alleanza tra Pd e M5S e dei maggiori giornali divenuti fiancheggiatori conformisti del giustizialismo dei grillini. E se questo peso risulterà essere stato scarso, forse arriverà il momento per qualche cambiamento anche nella stampa italiana!

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Redazione23 Maggio 2019

Non c’è bisogno di fare riferimento alle assicurazioni di Matteo Salvini e di Luigi Di Maio per prevedere che il Governo giallo-verde non cadrà dopo le elezioni europee.

Non ci sono altre alternative all’attuale Esecutivo al di fuori del ricorso alle elezioni politiche anticipate. E poiché questa eventualità non è gradita al Quirinale e costituisce uno spauracchio non solo per i Cinque Stelle, consapevoli di aver avuto una fortuna che mai si potrà ripetere, ma anche per la stragrande maggioranza di parlamentari, coscienti di non aver alcuna possibilità di poter essere riconfermati, è facile prevedere che dopo il 26 maggio non ci saranno rotture.È probabile, al contrario, che Lega e Movimento grillino decidano di rilanciare l’azione del governo rinnovando e rivedendo il patto che ne è la base indispensabile.

Questo significa che le elezioni europee vanno considerate come l’inutile pausa di una fase proiettata per l’intera legislatura? Niente affatto. Perché pur non essendo destinate a modificare i rapporti di forza presenti nell’attuale Parlamento, i risultati del 26 maggio provocheranno comunque una mutazione sostanziale all’interno dell’alleanza di governo.

Attualmente la coalizione vede da un lato il Movimento Cinque Stelle al 32 per cento e la Lega al 19 per cento. Cioè certifica che il partito di Di Maio pesa e conta quasi il doppio del partito di Salvini. Al punto che quest’ultimo esprime il Presidente del Consiglio ed assicura al partito di maggioranza relativa un peso specifico decisamente maggiore rispetto alla Lega.

Ma nel caso il voto europeo dovesse comportare una modifica di questi numeri con un possibile ribaltamento dei pesi tra leghisti e grillini, appare fin troppo logico presumere che qualsiasi rivisitazione del patto non potrà non rispecchiare la realtà dei nuovi rapporti di forza. Il ché significa, sempre che i sondaggi delle settimane scorse siano attendibili, un passaggio di consegne tra Lega ed M5S nel ruolo di forza trainante della coalizione. Con tutte le conseguenze del caso. Prima fra tutte le possibilità che i grillini trovino umiliante e pericoloso diventare l’intendenza di Salvini ed incomincino a pensare che andare al voto anticipato in autunno sia l’unica speranza di sopravvivenza per il proprio partito.