L'Opinione delle Libertà | Arturo Diaconale - Part 7


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Redazione28 Novembre 2019

Matteo Renzi non lo dice ed i suoi amici tacciono a sua imitazione. Ma sono assolutamente convinti di essere diventati l’oggetto di una offensiva politico-giudiziaria diretta a fare piazza pulita di Italia Viva prima delle future elezioni politiche. Ufficialmente non possono non dichiarare piena fiducia nella magistratura che ha aperto con grande risalto mediatico l’inchiesta sulla Fondazione costruita per finanziare le varie edizioni della Leopolda e sostenere economicamente le iniziative politiche dell’ex premier ed attuale leader del partito nato dalla scissione a destra del Partito Democratico. Ma dietro le dichiarazione formali appaiono assolutamente convinti che l’inchiesta dei Pm di Firenze debba essere inserita nel quadro delle azioni dirette a rendere la vita impossibile e ridurre al massimo l’agibilità politica degli scissionisti renziani del partito guidato attualmente da Nicola Zingaretti.

È impossibile stabilire se questi sospetti siano fondati o meno. Ma ciò che più colpisce è che sospetti di questo genere non stupiscono e non spaventano nessuno. Al contrario, vengono recepiti dall’opinione pubblica come se fosse ormai una prassi abituale, normale ed addirittura scontata che le battaglie politiche possano essere combattute per via giudiziaria.

Negli anni passati chiunque osava avanzare l’ipotesi che una parte della magistratura fosse condizionata dai propri interessi politici o partitici, veniva  subissato da proteste più o meno indignate dell’Anm e di una gran parte di cittadini stupiti che si potesse mettere in discussione l’indipendenza, l’autonomia e la terzietà delle toghe.

Oggi capita l’esatto contrario. Lo stupore scatta quando l’opinione pubblica viene a conoscenza dell’esistenza, anche nel nostro paese, del giudice a Berlino. Cioè di una inchiesta o di un giudizio che non appaiano segnati da un qualche interesse politico. L’anomalia, in sostanza, è diventata la normalità. Al punto che appare del tutto naturale e scontato che Matteo Renzi ed il suo neonato partito siano diventati il bersaglio di una inchiesta giudiziaria diretta a cancellare un concorrente diretto del Partito Democratico.

Vent’anni di giustizialismo forsennato hanno prodotto come risultato non la diffusione del principio di legalità ma il discredito e la delegittimazione della magistratura.

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Redazione27 Novembre 2019

L’idea di tornare all’Iri per risolvere tutte le grandi crisi industriali presenti nel paese pone una questione pregiudiziale a cui dare una risposta. È il mercato che non offre soluzioni o è la classe politica che non è all’altezza dei problemi complessi del momento?

Chi ipotizza la resurrezione dell’Iri non si pone l’interrogativo. Per costoro la priorità è ribadire il principio che lo stato deve sempre e comunque intervenire sul terreno economico stabilendo automaticamente l’assioma che la classe politica al governo dello stato non può non essere capace di svolgere il compito a cui è preposta.

Ma la realtà è più forte delle convinzioni ideologiche astratte. E se Alitalia, Ilva e tutti gli altri casi di grandi crisi aziendali non trovano risposte ormai da lungo tempo, non si può non sollevare il dubbio che il problema non sia il mercato ma l’incompetenza di chi avrebbe il compito di sciogliere i nodi di tali crisi.

La vicenda della compagnia di bandiera è sintomatica. La crisi viene da lontanissimo e le responsabilità vanno in gran parte ricercate nel passato. Ma si può dire che quando spetta ai rappresentanti del Movimento Cinque Stelle il compito di sbrogliare matasse così complesse e difficili l’impresa da disperata diventa impossibile?

Oggi si scopre che era inadeguata ed improponibile una cordata di salvatori dell’Alitalia in cui figurava una azienda che dopo essere stata accusata di non essere in grado di gestire tremila chilometri di rete autostradale avrebbe dovuto essere capace di convertirsi alla gestione di una rete aerea. Ma chi aveva chiesto l’immediato ritiro della concessione autostradale ad Atlantia dopo la tragedia del ponte Morandi era lo stesso che non aveva battuto ciglio di fronte all’ingresso della stessa Atlantia nella cordata Alitalia. Il fallimento di oggi, dunque, era stato annunciato allora. E se oggi i responsabili di quell’errore strategico scoprono che l’unico modo per uscire dalla vicenda è riesumare l’Iri (come se il ritorno alle Partecipazioni Statali servisse a rimettere in piedi una azienda condannata dalle condizioni del mercato a rimettersi in piedi solo dopo un drastico ridimensionamento in termini di strutture ed addetti), diventa legittimo chiedersi se i falliti non stiano preparando un nuovo fallimento scaricandolo sulle tasche di tutti gli italiani.

Il problema, allora, è che gli incapaci provocano danni. E che è sempre tardi quando si interviene per mandarli a casa!

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Redazione26 Novembre 2019

Don Biancalani, che nella sua parrocchia intona e fa cantare ai fedeli “Bella ciao”, non è un problema per Matteo Salvini, di cui il sacerdote è un oppositore deciso ed intransigente, ma  è un problema per la Chiesa e per i cattolici italiani. Lo è non perché faccia intonare una canzone che pur essendo stata composta negli anni successivi alla fine della guerra, rappresenta la Resistenza ed è diventata il simbolo di ogni diversa componente della sinistra italiana. Ma perché la motivazione della iniziativa di don Biancalani è tutta rivolta non a celebrare la lotta passata al nazifascismo ma quella presente contro uno schieramento politico ed un leader che vengono considerati dal fronte progressista l’anticamera moderna del fascismo e l’imitatore attuale di Mussolini e di Hitler.

Se la convinzione che il fascismo ed il nazismo sono alle porte su spinta del centro destra e dei suoi leader fosse condivisa dall’intero popolo dei cattolici e da tutte le sue gerarchie, sul sacerdote canterino non scatterebbe alcuna attenzione. Ma don Biancalani rappresenta solo una parte ben definita del mondo cattolico e delle sue gerarchie. L’altra parte, maggioritaria o minoritaria che sia, non condivide affatto la convinzione che il nuovo centro destra sia l’anticamera della dittatura del passato. Anzi, è più che mai certa della totale infondatezza di questa tesi e pensa che in realtà non sia la fede religiosa a suscitare simili sciocchezze ma solo i radicati pregiudizi ideologici presenti all’interno della sinistra e delle componenti progressiste del mondo cattolico.

Agli occhi di quest’altra parte Don Balancani sarebbe un perfetto cappellano del movimento delle sardine. Che non unisce il popolo di Dio ma provoca la sua divisione infettandolo con il virus dell’intolleranza politica. E spinge quei settori del mondo cattolico che considerano don Balancani un prete-sardina a reagire con sempre maggiore fastidio alle forzature politiche dei sacerdoti progressisti non solo disertando le Chiese trasformate in sezioni ma manifestando un sempre maggiore consenso nei confronti di Matteo Salvini, della Lega e del centro destra.

Il leader leghista, ovviamente, accende grandi ceri di ringraziamento. Se non ci fossero  preti-sardine se li dovrebbe inventare!

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Redazione25 Novembre 2019

Non c’è bisogno di riscoprire che in un lontano passato Beppe Grillo aveva chiesto la tessera del Pd per trovare la spiegazione della sua scelta di rilanciare l’alleanza tra il Movimento Cinque Stelle ed il partito guidato da Nicola Zingaretti e di ribadire la sua piena fiducia nel capo politico del movimento Luigi Di Maio. Grillo sarà pure un nostalgico della vecchia unità delle sinistre ma le sue indicazioni di sabato scorso, quella in favore dell’alleanza con il Pd e quella della riconferma della leadership di Di Maio, sono state assolutamente obbligate. Il fondatore del Movimento, in sostanza, non poteva fare altrimenti. E non solo perché se lo avesse fatto avrebbe provocato automaticamente la caduta del governo giallorosso spalancando sotto i piedi del M5S il baratro di elezioni anticipate a cui partecipare nel pieno di una devastante crisi del vertice e di malcontento e di smarrimento della base. Ma anche perché se avesse voluto mettere da parte Di Maio correndo il rischio della fine della legislatura non avrebbe saputo con chi sostituirlo.

Il problema dei Cinque Stelle, infatti, è che sicuramente l’attuale ministro degli Esteri è un capo in precipitoso declino. Ma è ancora più che tra i tanti aspiranti non c’è nessuno in grado di prenderne il posto nel ruolo di leader massimo. Non è un caso che tra i suoi critici neppure uno si propone come alternativa ma tutti manifestano il loro malcontento per il capo azzoppato dai suoi errori proponendo una guida collegiale formata dagli esponenti delle diverse anime del movimento.

Certo, ci sarebbe Alessandro Di Battista. Ma sostituire Di Maio con il rappresentante più qualificato della componente movimentista avrebbe avuto la stessa conseguenza dell’annuncio della rottura del patto di governo con il Pd con annessa crisi di governo ed elezioni anticipate. Per cui a Grillo non è rimasto altro che puntellare Di Maio e riconfermare l’alleanza con la sinistra fino al termine della legislatura. Nella speranza che nel corso degli anni di permanenza al governo la base grillina maturi e comprenda che il suo destino è di diventare a tutti gli effetti una costola della sinistra in una Italia tornata ad essere definitivamente bipolare.

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Redazione22 Novembre 2019

Non è detto che la crisi del Movimento Cinque Stelle sia destinata a scaricarsi direttamente sul governo. Tutte le componenti della coalizione giallorossa sono terrorizzate dalla prospettiva di elezioni anticipate. E questa paura è il solo ed unico puntello su cui può continuare a reggere l’esecutivo di Giuseppe Conte. È assolutamente sicuro, però, che la crisi grillina abbia conseguenze nefaste sul Partito Democratico. Al suo interno le ormai probabili sconfitte elettorali nelle regionali dell’Emilia-Romagna e dalla Calabria non potranno non innescare lo scoppio delle tensioni fino ad ora frenate dall’armistizio tra correnti su cui poggia la segreteria di Nicola Zingaretti.

Quest’ultimo rischia di essere vittima di una singolare sorte. Pur essendo stato il più restio tra i dirigenti del Pd a stringere l’accordo di governo con il Movimento Cinque Stelle, ora pare condannato a diventare la prima e principale vittima del fallimento di questa alleanza certificato dal voto sulla rete Rousseau con cui la base grillina ha bocciato la linea politica indicata dal gruppo dirigente nazionale. Stessa sorte per il capo politico del M5S Luigi Di Maio. Anche lui non aveva nascosto la sua contrarietà all’accordo governativo con il Pd ed era stato costretto a piegarsi alle indicazioni di Beppe Grillo suffragate dal sostegno di un apposito voto su Rousseau. Ma anche lui, come il segretario dem, pare condannato ad essere la vittima più diretta della scelta dei militanti di non sacrificare le proprie liste a vantaggio del Pd e dell’alleanza di governo alle prossime elezioni regionali.

Simul stabunt, simul cadent, allora? Per Zingaretti e Di Maio pare proprio di si. L’accordo che i due avevano osteggiato è stato terremotato ed loro due sono condannati a rimanere sotto le macerie di ciò che non avrebbero voluto. D’ora in avanti nei rispettivi partiti si aprirà la lotta senza tregua per la loro successione. Una lotta che potrebbe essere interrotta solo da elezioni anticipate a febbraio o, come spera Giuseppe Conte, dal rinvio della caduta del governo al momento in cui i travagli interni di Pd e M5S saranno terminati.

Il vero guaio di tutta questa storia è che i cocci della rottura tra Pd e M5S non sono i loro ma dell’intera società nazionale.

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Redazione21 Novembre 2019

Fino alla settimana scorsa sul Movimento Cinque Stelle gravava il rischio di una scissione o di una progressiva frantumazione dei suoi gruppi parlamentari. Adesso le discussioni e le polemiche sulla opportunità o meno di presentare le liste del movimento alle elezioni regionali in Emilia-Romagna, in Calabria e nelle regioni dove si voterà alla fine della prossima primavera, il pericolo è cambiato. O meglio, a quello preesistente di scissione verticale si è aggiunto il rischio sempre più concreto ed incombente di una scissione orizzontale, cioè di una spaccatura tra il vertice e la base grillina, tra il gruppo dirigente nazionale e quelli locali, tra i gruppi parlamentari di Camera e Senato ed i quadri regionali che vorrebbero inserirsi nelle istituzioni locali ma che, con la mancata presentazione delle liste, sarebbero condannati alla esclusione non solo dai consigli regionali ma, anche e soprattutto, dalla dialettica politica dei propri territori.

Fino ad ora è sembrato che il problema principale del M5S fosse quello della scissione verticale, della frantumazione del gruppo dirigente nazionale e della leadership di Luigi Di Maio sempre più discussa e contestata all’interno del massimo vertice del movimento. Ma ora l’ombra di possibili scissioni orizzontali, con i gruppi locali decisi a presentare le liste contro l’indicazione in favore della rinuncia per assicurare la desistenza al Pd e continuare a mantenere in piedi l’attuale governo giallorosso, diventa il pericolo maggiore per il movimento grillino segnato da un vertice diviso che è, a sua volta, separato da una frattura invalicabile con la propria base.

Questa separazione è il segno inequivocabile della crisi del Movimento Cinque Stelle. Gli esponenti che hanno avuto la fortuna di cogliere il vento favorevole alle ultime elezioni politiche ed hanno conquistato un seggio alla Camera ed al Senato, hanno come unica preoccupazione quella di conservare la loro conquista il più a lungo possibile evitando qualsiasi comportamento possa mettere in crisi l’alleanza con il Pd, provocare la crisi di governo e spalancare il baratro di elezioni anticipate destinate a rimandarli in gran parte a casa. Da parte loro i grillini locali, pur consapevoli che presentare liste alle regionali li condannerebbe a rappresentanze estremamente esigue, non hanno alcuna intenzione di scomparire dalle scene politiche dei propri territori per consentire ai fortunati del vertice nazionale di conservare i propri privilegi.

Il finale della storia è già scritto. I privilegiati si aggrapperanno allo spasimo ai loro privilegi e gli aspiranti privilegiati locali cercheranno di presentare le liste per ottenere anche loro un pezzettino di posto al sole. Il declino del M5S è segnato!

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Redazione20 Novembre 2019

Sono temi identitari da sbandierare in campagna elettorale quelli messi in campo negli ultimi giorni dalle diverse componenti della maggioranza di governo. Renzi lancia lo sblocca cantieri emergenziale, Zingaretti lo ius soli, Di Maio il reddito minimo ed il conflitto d’interessi e Leu non lancia nulla perché non ha alcuna ragione di sottolineare una identità che ormai è tornata ad identificarsi con quella del Partito Democratico.

Tutto questo sbandieramento lascerebbe intendere che il voto anticipato sia ormai imminente. Come se Pd, M5S e Iv fossero ormai convinti che la ricerca di una “anima comune” del governo Conte sia impossibile e che l’unica strada per fermare il processo di logoramento dei partiti di maggioranza sia quella di chiudere l’esperienza dell’esecutivo giallorosso e di andare ad elezioni anticipate dirette alla cosiddetta riduzione del danno.

Ma questo schema ha un limite. Che è rappresentato paradossalmente dalla totale incapacità dei partiti governativi di elaborare un qualsiasi schema di comportamento. Si procede a tentoni, alla giornata. Una volta assicurando il massimo sostegno a Conte e ribadendo la ferma volontà di arrivare fino al termine della legislatura per non regalare la Presidenza della Repubblica alle “forze della reazione in agguato”. E la volta seguente, che è sempre immediata, esibendo con il massimo clamore i propri fattori identitari volti a marcare le differenze ed accentuare la concorrenzialità all’interno della coalizione.

Tanta schizofrenia non produce una accelerazione verso un qualsiasi chiarimento politico ma, al contrario, solo paralisi ed immobilismo. Con il governo che va avanti ma senza risolvere nulla ed ingarbugliando al massimo tutti gli scottanti dossier sul tappeto. Dall’ex Ilva all’Alitalia, dal Mose a tutte le infrastrutture che non partono, dalla ricostruzione delle zone terremotate bloccata a tutto il resto delle infinite questioni aperte a cui non viene data alcuna risposta.

Ipotizzare che possano essere i partiti di governo a rompere l’immobilismo è pura illusione. Ma in assenza di un qualsiasi segno di vitalità della maggioranza spetterebbe ad una autorità superiore il compito di suonare un campanello d’allarme.

E questa autorità è solo il Presidente della Repubblica. Che aspetta il Capo dello Stato Sergio Mattarella ad inviare un messaggio alle Camere per invocare una qualche forma di risveglio e di assunzione di responsabilità?

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Redazione19 Novembre 2019

Si fa sempre più concreto il rischio che la vicenda dell’ex Ilva diventi un caso di schizofrenia italiana destinato ad avere una rilevanza mondiale. La scelta del governo, su intimazione del Movimento Cinque Stelle, di delegare alla magistratura la soluzione della questione incomincia a produrre i primi effetti nefasti. Le Procure di Milano e di Taranto, che con le loro azioni giudiziarie puntano a costringere l’Arcelor Mittal a rinunciare al recesso del contratto di acquisizione dell’acciaieria, stanno creando le condizioni per far esplodere una delle più gravi contraddizioni del sistema giudiziario italiano, quella della cosiddetta giustizia arlecchino segnata dai comportamenti conflittuali dei magistrati delle più diverse Procure.

Se le inchieste aperte a Milano ed a Taranto, dirette ad accertare le responsabilità civili e penali di chi attenta alla produttività ed agli interessi nazionali bloccando l’impianto tarantino, andranno avanti, dovranno necessariamente prendere atto dell’esistenza di una disposizione della Procura di Taranto che impone alla ArcelorMittal di procedere entro il 13 dicembre o al risanamento ambientale o alla chiusura dell’altoforno 2. Questa disposizione, visto che l’azienda considera impossibile risanare gli impianti entro la data stabilita dalla Procura, comporta la chiusura anche degli altri due altoforni e la paralisi definitiva dell’acciaieria.

Esiste dunque la possibilità concreta che i magistrati milanesi e tarantini entrino in aperto conflitto con i colleghi di Taranto che, sulla base di lunghe inchieste precedenti sugli effetti devastanti dell’inquinamento ambientale sui lavoratori e sui residenti della città pugliese, stanno costringendo l’ArcelorMittal a staccare la spina. E c’è di più. Se alcune Procure minacciano la galera nel caso l’acciaieria venga chiusa ed un’altra Procura minaccia il carcere se la stessa acciaieria rimanga aperta, quale potrà mai essere il comportamento di chi fa impresa in Italia o pensa di poter far impresa in un paese come il nostro dove la politica demanda la politica industriale alla magistratura e quest’ultima indaga se stessa cancellando ogni possibilità di iniziativa industriale?

È arrivato il momento di dire “basta” a tanta follia!

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Redazione15 Novembre 2019

Mittal chiude gli altiforni dell’ex Ilva entro gennaio e il governo prepara le carte per quella che il Premier Giuseppe Conte ha definito “la battaglia legale del secolo”. Le due diverse vicende ricompattano il Movimento Cinque Stelle che raggiunge il traguardo della chiusura dell’acciaieria considerato come un obbiettivo identitario della propria azione politica e vede spostare l’intera questione dal livello politico a quello giudiziario, cioè all’altro e principale obbiettivo identitario della propria battaglia rappresentato dalla sostituzione dell’equilibrio dei poteri del tradizionale stato di diritto con il trionfo della supremazia della potere giudiziario sugli altri due.

I cinque stelle ricompattati dietro Luigi Di Maio non si curano del fatto che mentre il governo prepara le carte per la battaglia giudiziaria del secolo destinata ad esaltare il ruolo della magistratura, i diecimila lavoratori tarantini e gli oltre ventimila dell’indotto pugliese e nazionale rischiano la perdita del posto di lavoro. Per loro la questione è di facile soluzione. Se ne occuperà lo stato, con una nazionalizzazione piena o parziale e con l’applicazione a pioggia della cassa integrazione per tutto il tempo (cioè per anni ed anni) necessario per lo svolgimento della battaglia giudiziaria. Il costo di una operazione del genere non turba il gruppo dirigente grillino. Male che vada, lasciano intendere, c’è sempre la Cassa Depositi e Prestiti che può intervenire per tappare l’ennesima falla che si apre sulle casse dello stato. Come se la Cassa fosse una Ong caritatevole privata e non un organismo interno dello stato stesso.

Quella dei grillini può apparire come una posizione folle. In realtà è solo la dimostrazione che per loro l’ideologia della decrescita che porta al pauperismo egualitario a spese di uno stato totalmente assistenzialista (in quanto tale anche totalitario) deve avere sempre e comunque la priorità assoluta sui problemi reali. Di folle, semmai, c’è la passività con cui gli alleati del Movimento Cinque Stelle accettano una azione di governo subordinata alla priorità dell’ideologia grillina sulla realtà del paese. Presto o tardi quest’ultimo chiederà il conto di tanta passività. E sarà particolarmente alto e salato!

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Redazione14 Novembre 2019

Per onestà intellettuale bisogna ammettere che se Giuseppe Conte non fosse andato a Venezia sarebbe stato criticato. Ma ora che il Presidente del Consiglio ha compiuto la sua passerella a piazza San Marco, è necessario rilevare che la sua visita è servita solamente a creare intralcio e perdita di tempo alle autorità locali impegnate a fronteggiare l’emergenza del maltempo. Sul piano della visibilità, poi, la passeggiata di Conte tra le calli con una conferenza stampa finale segnata da una frettolosità giustificata dall’esistenza di impegni per verifiche di non precisata natura, non è servita ad aumentare la popolarità del Premier. Semmai ad instillare nell’opinione pubblica la sensazione che il Presidente del Consiglio o confonda il proprio ruolo con quello di una pop-star nella convinzione che il pubblico non abbia alcuna capacità di distinguere l’uno dall’altro o che voglia usare l’esposizione mediatica per nascondere le difficoltà che incontra nell’affrontare i problemi reali del paese.

Tutto sommato, quindi, Conte avrebbe fatto meglio se fosse rimasto a Palazzo Chigi. Per definire al meglio gli interventi straordinari che lo stato deve attuare per dare una risposta efficace alla emergenza veneziana. E per dimostrare con i fatti di essere in grado di guidare con autorevolezza e competenza il governo nella vicenda, altrettanto emergenziale, dell’ex Ilva senza subire passivamente le pressioni, i ricatti e le contraddizioni delle componenti della coalizione governativa in lite fra loro.

Certo, esibirsi nella passerella a Venezia è molto più facile che dipanare la matassa intricata di Taranto. Ma anche se con il video a piazza San Marco si va sui siti e sulle tv di tutto il mondo, il futuro della vocazione manifatturiera del paese si gioca dentro e fuori l’acciaieria pugliese. Ed un Presidente del Consiglio consapevole del proprio ruolo deve obbligatoriamente evitare di imitare le star dello spettacolo ed occuparsi delle questioni concrete. Nella consapevolezza che Venezia si salva solo se si rilancia la crescita complessiva del paese. Perché con la decrescita infelice le città d’arte italiane sono destinate a sgretolarsi per mancata cura e manutenzione.

Per Conte, dunque, meno passerelle e più fatti concreti. Altrimenti è meglio che si dia alla televisione ed al cinema!