L'Opinione delle Libertà | Arturo Diaconale - Part 24


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Redazione11 Marzo 2019

Il compromesso sulla Tav inventato da Giuseppe Conte che sposta la questione a dopo le elezioni europee non solo non la risolve ma costituisce un danno d’immagine sia per il Movimento Cinque Stelle sia per la Lega. La formula escogitata dal Premier per scongiurare la crisi di governo sancisce in maniera incontrovertibile che per i due partiti della coalizione governativa le rispettive posizione identitarie – lo sviluppo per la Lega, la decrescita per i Cinque Stelle – possono essere tranquillamente subordinate alla conservazione del potere governativo.

Questa subordinazione degli ideali alla tenuta delle poltrone è un fenomeno assolutamente normale per tutte le forze politiche tradizionali. Ma il M5S rivendica la propria totale diversità dagli altri partiti. Fa del rifiuto assoluto al mercimonio tra ideali e potere la propria ragion d’essere. E anche la Lega nasce con la rivendicazione di questa purezza pur se nel corso degli anni ha imparato ad adattare i principi immodificabili alle necessità contingenti.

Per questo la supercazzola escogitata da Conte costituisce un danno d’immagine per i due partiti governativi. Meno devastante per la Lega di Matteo Salvini, ma sicuramente carica di forti conseguenze negative per i Cinque Stelle di Luigi Di Maio.

Quest’ultimo appare agli occhi dell’opinione pubblica del Paese e dell’intera base grillina come un modesto emulo dei tanto esecrati esponenti politici della Prima Repubblica, di quelli ferocemente fedeli al principio che tutto può essere piegato di fronte alla tenuta del potere. E, soprattutto, dimostra di essere un leader dai nervi fragili incapace di gestire con razionalità e lungimiranza le situazioni di difficoltà.

A poche settimane dal voto europeo il capo politico grillino esce ancora una volta umiliato dal confronto con Salvini. Quest’ultimo deve sicuramente incominciare a spiegare al proprio elettorato perché mai la Lega debba ancora sopportare un alleato totalmente inadeguato che provoca danni al Paese. Anche se può rivendicare di non aver ceduto di fronte al ricatto grillino sul “No” alla Tav. Ma Luigi Di Maio che può raccontare alla propria base oltre la favola ridicola che gli avvisi di bando non sono bandi?

L’agonia del governo, quindi, viene prolungata fino al voto europeo. Dove la Lega rischia di arrivare con il fiatone e il Movimento Cinque Stelle in coma irreversibile.

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Redazione8 Marzo 2019

Giuseppe Conte è Presidente del Consiglio su indicazione del Movimento Cinque Stelle. Per cui il Premier, chiamato a risolvere la questione della Tav, dichiara di essere perplesso sulla fattibilità dell’opera e lascia intendere, con il chiaro intento di lisciare il pelo al partito che lo ha piazzato a Palazzo Chigi, che se fosse per lui il buco dell’Alta Velocità andrebbe tappato alla faccia dell’Unione europea, della Francia, delle madamine torinesi e chi crede che lo sviluppo dipenda dalle infrastrutture.

Ma Giuseppe Conte continua a svolgere il ruolo di Presidente del Consiglio grazie al sostegno dato dalla Lega di Matteo Salvini al suo Governo. Se i leghisti, che nel frattempo hanno ribaltato i rapporti di forza con i grillini, si sfilassero, l’Esecutivo andrebbe a casa costringendo il Premier a riparare nel suo studio di avvocato. Per cui Conte, che giustamente considera la carica di Capo del Governo come uno di quei colpi di fortuna che capitano una sola volta nella vita, nel logico tentativo di non costringere la Lega a dare fuoco alle polveri evita di bocciare irrimediabilmente la Tav e lascia capire che al termine di un confronto con Ue, Francia e tutti gli esperti veri o fasulli che si occupano della vicenda, si potrebbe anche arrivare a varare l’opera debitamente riveduta e corretta secondo criteri ancora del tutto definiti.

Sul piano umano l’incertezza e l’ambiguità di Conte suscitano sicuramente un pizzico di solidarietà umana. Il suo affannoso barcamenarsi tra posizioni inconciliabili potrebbe addirittura provocare un moto di compassione nei suoi confronti.

Sul piano politico, però, visto che in ballo c’è l’interesse del Paese e non la condizione umana di Conte a cui nessuno ha imposto con la forza di accettare la carica di Capo del Governo, diventa obbligatorio chiedersi quanto possa essere elevato il prezzo da pagare ad un Presidente del Consiglio così ondivago e inconcludente ma disperatamente intenzionato a conservare il più a lungo possibile la fortuna cadutagli inaspettatamente sulla testa.

La risposta è scontata. Il prezzo, fin troppo salato, è la paralisi della società italiana. Un prezzo che Conte fa pagare agli italiani per poter restare inchiodato a Palazzo Chigi per un altro tratto di legislatura. In politica capita spesso che l’ambizione di uno non coincida con le necessità di tanti. Ma in questo caso non si tratta neppure di ambizione. Solo di piccola meschinità!

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Redazione7 Marzo 2019

È normale che Pd e Leu dipingano come l’anticamera del Far West la legge sulla legittima difesa passata alla Camera dei deputati ed ora in attesa del voto definitivo al Senato. Ma chiunque abbia letto il provvedimento senza pregiudiziali di sorta e senza doverne necessariamente sottoporlo ad esigenze di propaganda politica, si è reso conto che il rischio di trasformare il Paese in un Far West dominato dall’uso indiscriminato delle armi è del tutto inesistente. La legge non legittima alcun uso incontrollato della violenza ma si limita a ridimensionare la discrezionalità dei magistrati nelle incriminazioni e nei giudizi di chi subisce una aggressione e reagisce appellandosi alla legittima difesa.

Per questo la decisione di 25 deputati del Movimento Cinque Stelle di disertare la seduta e non votare l’approvazione della legge sulla legittima difesa, non può essere archiviata come una dissociazione occasionale dovuta ad una particolare sensibilità personale, ma va considerata come un preciso segnale politico rivolto alla Lega ed al gruppo dirigente grillino.

Il messaggio rivolto alla Lega è fin troppo evidente. Al Senato, dove il provvedimento è atteso per l’approvazione definitiva, la maggioranza si regge su pochissimi voti. Se la legge dovesse subire la dissociazione di una decina di grillini e passare grazie ai voti determinanti di Forza Italia e Fratelli d’Italia, la crisi di governo sarebbe automaticamente aperta. Lo stesso messaggio è indirizzato a Luigi Di Maio con una aggiunta ancora più inquietante. Quella secondo cui la crisi non segnerebbe solo la caduta del Governo Conte, ma anche la spaccatura della rappresentanza parlamentare del Movimento Cinque Stelle alla vigilia delle elezioni europee.

Il segnale, dunque, è che la dissidenza grillina non è più individuale ma si va progressivamente organizzando ed estendendo e che è pronta anche ad atti estremi pur di convincere Di Maio a bloccare la forza sempre più espansiva della Lega.

L’irrigidimento sulla Tav sembra indicare che il gruppo dirigente grillino non sottovaluta affatto la sortita dei dissociati sulla legittima difesa. Ma questo significa che il Governo è a rischio e che dopo le elezioni europee potrebbe essere affondato dallo stesso Di Maio per salvare l’unità del Movimento Cinque Stelle.

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Redazione6 Marzo 2019

Quando i sondaggi indicano che il governo può contare sul consenso di oltre il sessanta per cento del Paese forniscono una notizia matematicamente esatta ma politicamente del tutto fasulla. Perché è vero che Lega e Movimento Cinque Stelle, anche se con percentuali di consenso ribaltate rispetto ai risultati delle ultime elezioni politiche, raggiungono insieme un gradimento popolare estremamente ampio. Ma è ancora più vero che a consentire di conseguire un risultato del genere non è la comune volontà degli elettorati della Lega e del Movimento Cinque Stelle, ma il solo patto di governo sottoscritto da due forze politiche espressioni di due volontà popolari non solo totalmente diverse ma anche profondamente antagoniste tra di loro.

Mettere insieme il presunto 36 per cento della Lega con l’altrettanto presunto 24 per cento del Movimento Cinque Stelle è, dunque, un’operazione matematica. Ma ricordare che il 60 per cento della somma delle due percentuali è il frutto non del voto degli italiani ma dell’alchimia parlamentare escogitata dai due partiti per mettere in piedi un governo di opposti è una normale accortezza politica. Tesa a ricordare che il governo non poggia su un forte ed univoco consenso popolare, ma su un compromesso tra due partiti antagonisti che si regge sul compromesso continuo e che, per questa evidente ragione, ha una natura estremamente precaria.

La questione della Tav va analizzata sulla base della osservazione politica e non di quella matematica. Gli elettori di Lega e di Cinque Stelle chiedono sulla Torino-Lione soluzioni opposte. E non per ragioni di merito, ma per ragioni di principio. La Tav è diventata un simbolo. Per i leghisti del modello di crescita, per i grillini del modello della decrescita. La logica vorrebbe che su questioni di principio di tale significato e portata non ci fosse possibilità di compromesso. Invece, così come il patto di governo tra inconciliabili ha consentito la nascita del governo giallo-verde, è possibile che l’esigenza di tenere in vita lo stesso governo almeno fino alle prossime elezioni europee consenta di trovare una qualche soluzione almeno temporanea.

D’altro canto, un governo fondato sulla precarietà non può che produrre che soluzioni precarie. Ovviamente sulla pelle del Paese!

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Redazione5 Marzo 2019

Nicola Zingaretti garantisce la derenzizzazione del Partito Democratico ed il ritorno a quella identità di sinistra post-comunista che era stata cancellata dal leaderismo liberalriformista dell’ex Presidente del Consiglio. Quanti oggi inneggiano al miracolo della rinascita del Pd compiuto dalle primarie non si rendono conto degli effetti controversi di questo ritorno al passato. Quelli positivi sono sicuramente il richiamo ai fuoriusciti della sinistra post-comunista ed il rientro all’ovile tradizionale di quella parte di elettorato sedotta dal rivoluzionarismo confuso e fasullo del Movimento Cinque Stelle. Sul terreno dei consensi elettorali, quindi, la cura Zingaretti servirà sicuramente a far aumentare i consensi di un partito ritornato alla rassicurante condizione identitaria della linea Pci-Pds-Pd. Ma proprio questa operazione di eliminazione della identità del leaderismo liberalriformista imposta dal renzismo comporterà inevitabilmente come principale effetto negativo l’isolamento politico del partito.

Con molta abilità Zingaretti rispolvera le icone di Romano Prodi e Walter Veltroni per cercare di dimostrare che il suo è un progetto non post-comunista ma solo ulivista, cioè aperto a tutte le componenti del centro e della sinistra, da quelle più moderate a quelle più radicali, unite dall’avversione comune al risorgente fascismo razzista della nuova destra guidata da Matteo Salvini. Ma questo lavoro di trucco e parrucco, oltre ad essere fondato sul postulato sbagliato di un fascismo ed un razzismo risorgenti e del tutto inesistenti nel paese reale, passa inevitabilmente attraverso una radicale rottamazione del renzismo destinata a provocare non solo l’emarginazione dell’ex leader ma anche la presa di distanze da tutte quelle forze d’ispirazione liberale e riformista dell’area centrista che si erano avvicinate al Pd liberato dalla tradizione post-comunista. Non è un caso che Carlo Calenda non nasconda il proprio nervosismo dando per scontato che Zingaretti non accetterà mai la proposta del listone senza simbolo del Pd e segnato dalla presenza di candidati moderati del fronte progressista.

Il progetto del nuovo segretario, infatti, punta sulla riproposizione di un Pd asse portante della sinistra, cioè sull’esatto contrario di quanto chiesto da Calenda. Ed indirizza il partito non ad includere i moderati, ma a recuperare i voti di sinistra finiti nel Movimento Cinque Stelle. Con l’ovvia conseguenza che la scelta obbligata del Pd di Zingaretti non di puntare alla crisi di governo per tentare una difficile alleanza con i grillini, ma per andare ad elezioni anticipate per recuperare il maggior numero di consensi in una condizione di sostanziale isolamento. In base al principio del “primum vivere, deinde”… trovare eventuali alleati!

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Redazione4 Marzo 2019

Senza aver mai compiuto una vera autocritica per le sconfitte passate e più recenti e senza aver modificato o rigenerato il vecchio gruppo dirigente, il Partito Democratico si ritrova, quasi d’incanto, con un nuovo segretario provvisto di grande investitura popolare e di una nuova linea politica imposta da una forte spinta della base a sua volta plasmata dalle sollecitazioni e dalle indicazioni dei grandi media del Paese.

Il segretario è Nicola Zingaretti, che ha sbaragliato i suoi avversari ufficiali con un risultato che lo mette in condizione di contrastare efficacemente i suoi avversari ufficiosi. La linea politica è quella indicata dalla manifestazione milanese che ha sancito come l’indicazione di marcia del Pd zingarettiano debba essere quella ispirata dai media e dagli intellettuali di riferimento decisi a far ripetere alla sinistra lo stesso schema politico dell’infinito secondo dopoguerra italiano. Lo schema secondo cui per unificare il fronte progressista non bisogna far altro che sostituire alla vecchia lotta al neofascismo la nuova lotta contro il neorazzismo. Ed identificare nel moderno “uomo nero” da battere il leader della Lega Matteo Salvini al posto dei passati nemici Bettino Craxi e Silvio Berlusconi.

Non si deve ironizzare sulla fortuna capitata a Nicola Zingaretti di aver ottenuto in un colpo solo una forte legittimazione a leader del fronte progressista ed una linea politica che la base apprezza perché ampiamente sperimentata dalle generazioni precedenti. Il dato oggettivo è che prima delle primarie il Pd non aveva un capo e non aveva una linea politica, mentre oggi ha un leader al quale i media maggiori e la base della sinistra hanno affidato il compito di combattere la destra criminalizzandola per il suo presunto razzismo cercando alleanze e consensi nella parte più radicale del Movimento Cinque Stelle.

Forse ci sarebbe da chiedersi se Zingaretti, che da buon funzionario di partito ha sempre mostrato doti tattiche ma mai grandi capacità strategiche, sarà in grado di interpretare al meglio la strategia del grande fronte popolare antirazzista. Ma forse la domanda vera è un’altra. Quanti danni potrà provocare al Paese la narrazione di una società dominata dal razzismo quando questo razzismo è inventato così come era inventato il fascismo degli anni Settanta?

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Redazione1 Marzo 2019

“Luigi Di Maio è vivo e lotta contro il sistema!”. Il vicepresidente del Consiglio e “capo politico” del Movimento Cinque Stelle ha riesumato un vecchio slogan della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta per comunicare di non aver subito alcuna conseguenza dalle sconfitte elettorali nelle elezioni regionali abruzzesi e sarde e di essere più combattivo di prima sul fronte della battaglia antisistema.

C’è da sperare che l’esponente grillino abbia voluto caricare di autoironia la citazione di uno dei rituali più in voga durante gli anni immediatamente successivi al ’68. Perché quello slogan veniva usato dai militanti dell’ultrasinistra di allora per celebrare, nel corso dei cortei, i compagni che avevano perso la vita negli scontri con i nemici fascisti. Serviva, in sostanza, per celebrare i morti e ribadire che la rivoluzione sarebbe andata avanti comunque in nome del caduto.

Ma Di Maio è vivo e vegeto. E, dovendo per carità di patria escludere che lui o chi lo possa aver consigliato a pronunciare il vecchio slogan non conosca il significato del rituale, c’è da chiedersi perché mai abbia avvertito il bisogno di proclamare ai quattro venti la propria sopravvivenza. Forse per smentire chi, dentro e fuori il movimento grillino, lo considera politicamente defunto nella previsione che dopo aver perso in Abruzzo e Sardegna perderà anche in Basilicata e Piemonte e, soprattutto, nelle elezioni europee di maggio?

Il sospetto che più dell’ignoranza possa aver agito la paura di essere considerato fuori gioco prima del tempo è forte. In un partito dove non esiste una dialettica democratica e vige il principio che il capo politico ha sempre ragione, le vittorie sono automaticamente ascrivibili al leader (come il 42 per cento nelle elezioni politiche) ma le sconfitte sono ancora di più destinate ad essere scaricate sulle sole spalle del massimo rappresentante del partito.

Di Maio, che ha registrato come la solidarietà nei suoi confronti da parte di tutti gli uomini di punta del M5S sia stata quasi inesistente, si sente così politicamente defunto da avvertire l’inderogabile necessità di ricordare ai suoi stessi fratelli-coltelli di essere vivo e lottare insieme a loro.

“Il cavaliere, che non se ne era accorto – scrisse a suo tempo Francesco Berni nell’Orlando innamorato – andava combattendo ed era morto”.

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Redazione28 Febbraio 2019

Per accendere un minimo di entusiasmo per la corsa a tre verso la segreteria del Partito Democratico è dovuto scendere in campo anche Romano Prodi con un appello al popolo della sinistra a recarsi a votare ai gazebo delle primarie di domenica prossima.

Ma è molto improbabile che l’intervento dell’ex Presidente del Consiglio possa convincere i simpatizzanti del Pd ad accorrere in massa ai seggi per scegliere chi, tra Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti, dovrà assumere il ruolo di segretario del Partito Democratico. Non solo perché Prodi è visto come un personaggio di una stagione politica ormai lontana nel tempo. Ma soprattutto perché nel cosiddetto popolo della sinistra si è ormai radicata la convinzione che, prima di poter ritornare ai fasti della stagione impersonificata da Prodi, il Pd dovrà toccare un fondo ancora non raggiunto. A tenere lontani dai gazebo simpatizzanti e militanti c’è la sensazione che la scelta del nuovo segretario, chiunque esso possa essere, non rappresenterà il momento dell’inversione della parabola discendente del partito ma solo una tappa di un processo di declino condannato a vivere altre ulteriori tappe di caduta libera prima del rimbalzo auspicato da Prodi.

Questa sfiducia poggia sulla previsione assolutamente fondata che chiunque uscirà vincitore dalle primarie dovrà fare i conti con il “convitato di pietra” costituito da Matteo Renzi e da quello che l’ex premier rappresenta all’interno della sinistra italiana.

La questione è personale. Perché Renzi è giovane e non ha alcuna intenzione di uscire prima del tempo di scena. Ma è soprattutto una questione politica. Perché Renzi rappresenta una componente della sinistra che ha assunto una identità diversa da quella tradizionale che la proietta in una posizione sempre più distinta e lontana dalle altre. Renzi non è solo l’erede della sinistra democristiana fondatrice del Pd insieme agli eredi del Partito Comunista. È l’espressione di una evoluzione riformista di quella sinistra scudocrociata che ha imboccato nel corso degli anni una strada addirittura alternativa a quella della componente post-comunista del Pd. E che presto o tardi non potrà non liberarsi dai legami del passato.

Per questo il popolo della sinistra non affollerà i gazebo. Aspetta, giustamente, che il dramma della inevitabile separazione si concluda.

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Redazione27 Febbraio 2019

Non sono molte le opzioni tra cui può scegliere Luigi Di Maio per bloccare il declino sempre più evidente ed accelerato del Movimento Cinque Stelle. In realtà sono solo due. Può cercare di fermare la parabola discendente mandando all’aria il governo e giocando la carta delle elezioni anticipate per salvare il salvabile prima che sia troppo tardi. O può pensare di interrompere ed invertire il fenomeno regressivo immaginando che la crisi sia dovuta solo a difetti strutturali provocati da una crescita inattesa ed abnorme e puntando su una riforma interna ispirata alle forme dei partiti tradizionali.

Al momento sembra che tra le due opzioni il “capo politico” del M5S abbia scelto la seconda. Quella della ristrutturazione di un movimento che dovrebbe correggere il caos organizzativo attuale con l’abolizione del tetto dei due mandati per i consiglieri comunali, con la possibilità di allearsi a livello locale con le liste civiche e con la creazione di un direttorio o Comitato centrale destinato ad affiancare il leader nei prossimi quattro anni del proprio incarico.

La seconda opzione, però, non cancella la prima. Perché la scelta definitiva sul modo in cui i grillini decideranno di invertire la propria decrescita dipenderà dal voto europeo. Il risultato delle elezioni di maggio, infatti, non sarà condizionato dalla mancanza di liste locali o dalla impossibilità di creare un personale politico di base stabile vista la regola della esclusione dalle cariche pubbliche dopo due mandati. Sarà un voto di pura opinione. In cui, vista la tradizione del Movimento, non conteranno neppure i nomi dei candidati ma solo il legame tra gli elettori pentastellati ed il simbolo del partito guidato da Di Maio.

Le Europee, in sostanza, saranno la radiografia esatta dello stato di salute della forza politica fondata a suo tempo da Beppe Grillo. Il loro esito dirà se la malattia in corso, quella che ha portato la perdita di venti punti in Abruzzo e di trenta in Sardegna, è temporanea e guaribile con una terapia da partito tradizionale o se, al contrario, è talmente grave da costringere ad un intervento estremo come la crisi di governo e le elezioni anticipate.

Ogni previsione, al momento, è azzardata. Anche se la storia passata dei movimenti populisti italiani, come quello qualunquista di Guglielmo Giannini, indica che quando la bolla si sgonfia non c’è intervento normale o straordinario in grado di salvarla.

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Redazione26 Febbraio 2019

È assolutamente normale che il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ed il capo politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio ribadiscano che i voti nelle amministrative regionali, prima in Abruzzo e domenica in Sardegna, non hanno alcuna influenza negativa sulla tenuta e sulla marcia del governo. Ed è ancora più normale che a mettersi sulle stessa linea sia il leader della Lega Matteo Salvini, sempre più convinto che vincere con il centrodestra nelle amministrative e fare il socio di riferimento nel governo nazionale costituisca una condizione di vantaggio da mantenere il più a lungo possibile.

Non è normale, però, immaginare che la tendenza in atto del ritorno al bipolarismo tradizionale, con il conseguente ridimensionamento del M5S a terza forza sempre più marginale, non possa avere alcun impatto sulla tenuta del Governo giallo-verde. Fino ad ora ad escludere conseguenze negative sull’Esecutivo è stata la constatazione che non esiste alternativa al patto tra leghisti e grillini nell’attuale Parlamento. Ma se i voti amministrativi e quello europeo dovessero dimostrare in maniera incontrovertibile che gli equilibri politici reali presenti nel Paese sono diventati totalmente diversi da quelli rappresentati dal voto del 4 marzo dello scorso anno, la considerazione sull’assenza di alternativa parlamentare dovrebbe lasciare obbligatoriamente il posto alla necessità di ridare voce alla sovranità popolare per rimettere il Paese formale in linea con quello reale.

Più i voti regionali confermano il ritorno al bipolarismo classico, in sostanza, più diventa concreta l’ipotesi delle elezioni anticipate. Elezioni che al momento sono osteggiate dalla stragrande maggioranza dei parlamentari timorosi di perdere la propria poltrona, ma che potrebbero diventare inevitabili non solo per l’evidente frattura tra Paese reale e Paese formale ma anche perché i partiti dell’attuale maggioranza potrebbero scoprire che il voto anticipato sarebbe l’unica soluzione possibile ai loro problemi. Le elezioni sarde hanno messo i grillini di fronte ad una bruciante realtà, quella di un declino accelerato, che può essere interrotto solo con un sollecito ritorno all’opposizione. Le elezioni, al tempo stesso, hanno lanciato alla Lega il segnale che la crescita a scapito del resto del centrodestra e del M5S ha raggiunto il punto di massimo sviluppo e che sarebbe opportuno passare all’incasso elettorale prima che la parabola possa incominciare a scendere.

Il voto anticipato, dunque, diventa una prospettiva possibile. Forse l’unica per salvare un Paese altrimenti condannato allo sbando!